Da Corriere della Sera del 17/03/2004

Berlusconi: «Fare in fretta per un Iraq democratico»

Il capo del governo: il terrorismo non si combatte nascondendosi in un angolo Penso che Aznar avesse ragione. Per me l’Eta ha avuto un ruolo negli attentati

di Maria Latella

«Fare in fretta a Bagdad, dare un governo democratico all’Iraq. E’ l’obiettivo di tutti e trentasei i Paesi». A questo pensa Silvio Berlusconi mentre l’effetto Zapatero incombe sulla manifestazione unitaria contro il terrorismo, quella del 18 marzo. Silvio Berlusconi non ha voglia di commentare gli aggiustamenti di rotta in corso nell’Ulivo dopo la vittoria del Psoe a Madrid. «Lasciamoli stare - riflette nel suo studio di Arcore, dove anche ieri ha riunito i vertici di Forza Italia, Bondi, Cicchitto -. Noi con l’Iraq non abbiamo fatto altro che comportarci in maniera corretta. Ora si cercherà di procedere in fretta perché Bagdad si dia un governo democratico. Ci sono trentasei Paesi che, come noi, hanno aderito alla coalizione. Da subito, ho detto al presidente Bush che non avremmo partecipato a nessuna operazione di guerra e così è stato: non abbiamo mai preso parte ad altre operazioni che non fossero di peacekeeping . Chi mi dipinge come uno abituato a cambiare idea non mi conosce. Il mio percorso è sempre uno, sempre lo stesso. Da alleati leali abbiamo garantito il nostro appoggio, il Parlamento ha approvato le operazioni, ci siamo assunti la nostra quota di responsabilità. Che cosa altro dovrebbe fare un Paese che è tra le prime sette o otto potenze mondiali?». Domenica ha vissuto a distanza le emozioni del suo amico Aznar, ieri s’è occupato di campagna elettorale italiana, ma da giorni, com’è ovvio, è il terrorismo, è l’Iraq che assorbono gran parte della sua attenzione. Il quadro, dice, «resta molto confuso». Rispetto alla guerra, «la situazione non può che essere la stessa che c’era prima dell’attentato di Madrid. Stiamo cercando di procedere perché Bagdad possa darsi un governo democratico, libero dalle infiltrazioni del terrorismo. Fare in fretta, questo è l’obiettivo dei trentasei Paesi, questo è l’obiettivo degli americani per primi. Sono loro, tra l’altro, a soffrire per lo stillicidio di vittime, in piena campagna elettorale».

Dieci giorni fa, il quadro appariva del tutto diverso. Il centrodestra aveva vinto in Grecia, il Partito popolare europeo sembrava avviato a una parata, se non trionfale, quantomeno gagliarda: prima Atene e poi Madrid, si prevedeva nelle cancellerie d’Europa. Invece, in meno di una settimana, lo scenario è totalmente mutato. Silvio Berlusconi si trova oggi privo dell’amico Aznar e, per questo stesso motivo, più determinante nel Ppe, più prezioso agli occhi degli Stati Uniti di Bush. Nel suo berlusconismo devoto, don Gianni Baget Bozzo gli suggerisce di cogliere, nella disgrazia, l’opportunità. Per il sacerdote genovese, dopo l’11 marzo l’Italia potrebbe approfittare del cambiamento di rotta della Spagna perché «è difficile che nell’immediato futuro Madrid conti come contava prima».

Nonostante il suo noto ottimismo, Berlusconi stavolta sembra ben più cauto di Baget. Per ora, si trova a fare i conti con una capitale europea passata «dall’altra parte», con l’emotività delle masse elettorali e le elezioni europee incombenti, praticamente dopodomani, il 13 giugno. Il suo pensiero va a José Aznar, vittima, sostiene, di attacchi un po’ maramaldi. «Vedo che s’è scatenato il solito ingeneroso assalto al perdente. Ma se posso confidare una mia personalissima impressione, bene, io resto convinto che Aznar avesse visto giusto. Sono convinto che in qualche modo l’Eta abbia avuto una parte negli attentati dell’11 marzo. Ragioniamo: troppo raffinata la tecnica, la scelta dei tempi, la contemporaneità degli attacchi. Soprattutto, troppo sospetta la dimenticanza di certe tracce sparse qua e là... Ma le pare che un terrorista lasci lo zainetto con il telefonino? E, guarda caso, nel pulmino ritrovato c’era pure un’audiocassetta con i versetti del Corano. Come se uno, andando in giro a fare attentati e sapendo di dover lasciare il pulmino dopo poco, si portasse dietro le cassette».

Quanto alle tecniche raffinate, non si può certo dire che i terroristi di Al Qaeda le ignorino. L’assalto alle Torri Gemelle di Manhattan è, sotto questo profilo, un caso esemplare e anche lì ci fu contemporaneità di azioni, anche lì son state lasciate delle tracce. Sono obiezioni per le quali Berlusconi ha pronta la replica: «Eh no, quelle sono state azioni kamikaze. A loro non importava di lasciare in giro qualche prova, qualche traccia, tanto sarebbero andati a morire, andavano incontro alla santificazione. Qui, nel caso di Madrid, le cose sono diverse: possibile che in poche ore, grazie a un cellulare abbandonato in uno zainetto, si arrivi ad arrestare i presunti responsabili della strage? Ad arrestarli poco prima che si aprano i seggi elettorali? No, questa storia non mi convince: intimamente non riesco a togliermi il dubbio che l’Eta abbia avuto qualche ruolo».

Per questo considera ingenerosa la pioggia di critiche sotto la quale l’ex lodatissimo Aznar lascia la Moncloa: «Come se tutti avessero dimenticato che l’Eta ha messo bombe nei supermercati, ha ammazzato gente inerme. L’Eta aveva mille motivi per farla pagare ad Aznar. E’ stato il suo governo ad aver messo fuori legge Batasuna, sotto di lui maggioranza e opposizione si erano unite contro il terrorismo basco».

Un altro sarebbe di umore cupissimo. Lui, tra un sospiro e l’altro, trova il modo per parlare del Milan, «lo sanno tutti che ci son dietro anch’io, in questa serie di successi della squadra, ma pur di non dire "il Milan di Berlusconi" vanno indietro nel tempo, parlano del Milan di Sacchi, del Milan di Capello...».

Distrazioni a parte, è dall’Iraq, oltre che da Milanello, che il premier vorrebbe ricevere buone notizie: «Auspichiamo un’accelerazione verso la costituzione di un governo democratico: qui si sta lavorando per diffondere la democrazia». Gli spagnoli hanno fatto capire con chiarezza di non gradire il metodo di Bush, quello condiviso da Aznar. «Il terrorismo non si combatte andandosi a nascondere in un angolo. Non si combatte diffondendo una bugia globale, e cioè che l’Occidente è responsabile assoluto della povertà e della disperazione di tanti Paesi. E’ assurdo. La verità è che dove c’è democrazia c’è sviluppo, e dove la democrazia non c’è, esiste la povertà, il fondamentalismo».

Si considera un fiutatore di venti, ma forse la reazione degli elettori spagnoli, così emotivamente compatta, ha colto di sorpresa anche lui. «Non è praticando l’acquiescenza nei confronti del terrorismo che ci si mette al riparo dagli attentati. Questo è un paradigma assurdo».

Colpa della «manipolazione mediatica», come l’ha subito battezzata Il Foglio . Il premier si considera un esperto nel ramo. In qualità di vittima, si capisce: «La sperimento ogni giorno sulla mia pelle. Se sul caro prezzi cito Einaudi che invitava i consumatori a far lavorare i piedi, mi danno addosso sostenendo che rovescio ogni responsabilità sulle massaie. Se dico che qualcuno, facendo politica, si è arricchito illecitamente, mi accusano di aver dato del ladro a tutti, indiscriminatamente. E lasciamo stare la storia dei diciassette minuti in tv. Per pura cortesia ho risposto a una richiesta, così come qualche volta faccio, ed è successo di tutto. Sarei io il bulimico, in tv, quando Rutelli è tutte le sere a Porta a porta e Fassino è stato ospite diciassette volte. Contro questa mistificazione quotidiana è impossibile farcela. Altro che grande comunicatore, io sono uno che porta la croce».

Il periodo è difficile, anche perché l’11 marzo di brutte notizie gliene sono arrivate due. Umberto Bossi è ancora in ospedale: «Ho un dispiacere...» dice Berlusconi. S’erano sentiti domenica: «Stava andando a vedere giocare il Milan, aveva i suoi tre figli e me li ha passati al telefono, uno dopo l’altro... Bisogna tener duro».

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