Da Corriere della Sera del 03/03/2004

La vendetta dei vinti sui rivali millenari

Con Saddam tutto il potere era dei sunniti. Chi colpisce gli sciiti punta a scatenare lo scontro tra gruppi religiosi

di Lorenzo Cremonesi

Sciiti e sunniti: una volta artificiosamente uniti sotto la dittatura, ora pericolosamente divisi nel nuovo Iraq. Ai tempi di Saddam chiunque mettesse l’accento sulle differenze tra la maggioranza sciita (oltre il 60 per cento su oltre 25 milioni di iracheni) e la minoranza sunnita (circa il 30 per cento) poteva venire tacciato di disfattismo o addirittura giustiziato con l’accusa di essere una spia al servizio di «americani e sionisti». Un anno fa, anche se ormai sembra molto di più, nessun iracheno avrebbe mai potuto affermare in pubblico che il regime era fondato in verità sul pugno di ferro imposto dalla dirigenza sunnita del «clan dei tikriti» sulle masse sciite del Centro-Sud. Guai a chi avesse ricordato i circa 60.000 caduti sciiti nelle rivolte subito dopo la guerra del 1991. Per i primi tre anni seguiti a quelle repressioni, andare nelle città devastate di Karbala e Najaf era un tabù. Quasi impossibile visitare i quartieri popolari rasi al suolo dai tank, gli hotel e gli ostelli per i pellegrini iraniani ridotti in macerie, i muri delle moschee di Ali e Hassan martoriati dai carri armati. L’esplosione di gioia del popolo sciita fu evidente il 24 aprile, 15 giorni dopo l’abbattimento della statua di Saddam dal suo piedistallo di marmo tra le aiuole di Furdus, la piazza nel cuore di Bagdad. Per la prima volta dalla salita al potere del partito Baath nel 1968 gli sciiti erano finalmente in grado di celebrare la festa più importante del loro calendario religioso: la Ashura, la commemorazione del martirio nel 680 dopo Cristo dell’imam Hussein, nipote di Maometto, ucciso tra Najaf e Karbala come suo padre Ali 19 anni prima, per la questione della successione del Profeta. Una celebrazione che è anche il mito fondatore degli sciiti. La glorificazione di un’identità collettiva basata sull’idea per cui il loro è un destino di ingiustizia, di vittime del tradimento e in ultima analisi di profonda e sofferta differenziazione dai «cugini» sunniti. E’ vero che in quella occasione poterono soltanto celebrare l’ultima parte della festa. Un anno fa, quando la Ashura era cominciata secondo il calendario lunare musulmano, la dittatura imponeva ancora i suoi divieti.

Ecco perché l’anno scorso, subito dopo la caduta di Saddam, la festa ci fu davvero. E festa grande. Alle moschee di Karbala arrivarono in quasi un milione. La maggioranza a piedi, moltissimi avevano marciato tre giorni per percorrere i 90 chilometri da Bagdad. Lungo la strada le organizzazioni religiose avevano posto punti di ristoro che distribuivano acqua, arance, pane fresco e formaggio. I più ascetici si limitavano a pochi sorsi d’acqua.

Ancora non s’era presentato l’allarme terrorismo. I sunniti, i veri sconfitti della guerra, si erano chiusi nei loro quartieri a Bagdad e nelle regioni ubertose del cosiddetto «triangolo» tra la capitale, Ramadi e Tikrit. Gli americani non si fecero vedere, a badare all’ordine pubblico rimasero le milizie coordinate dalla Hause al-Almieh (l’assemblea dei saggi a Najaf) e i moderati dell’ayatollah Ali Al-Sistani. Ma anche le prime avvisaglie dei gruppi armati che oggi sono legati all’imam estremista, Muqtada al Sadr, e le sue «brigate al Sader».

Eppure i germi della violenza stavano già crescendo. Il 10 aprile era stato assassinato a Najaf l’imam Abdel Majid al-Khoei. Un moderato, educato a Londra e in Iran (i suoi famigliari erano stati tra l’altro i maestri di Al-Sistani nelle scuole religiose di Qom). Adesso sappiamo che gli americani puntavano su al-Khoei nella speranza che potesse guidare il fronte del dialogo. Di lui si riparlò ancora venerdì 29 agosto, quando a Najaf un’auto bomba uccise oltre 100 fedeli che stavano defluendo dalla moschea dedicata all’imam Ali. Con loro morì Mohammad Baqr Al-Hakim, un altro moderato. «Al-Khoei e Al-Hakim, vittime della stessa mano» scrissero allora i giornali. Ci fu chi puntò il dito contro i «wahabiti» e Al Qaeda, gli estremisti del terrorismo sunnita. Ma si parlò anche di Muqtada al Sadr. E del pericolo di guerra civile. Chi oggi ha messo le bombe vuole alimentare l’odio interno. Come un mese fa, quando si diffusero le voci di un fallito attentato contro Al-Sistani. Ieri il grande ayatollah, massima autorità sciita, ha detto: «Riteniamo responsabili le forze di occupazione per aver procrastinato i controlli delle frontiere dell'Iraq e la prevenzione delle infiltrazioni e per non aver rafforzato le forze nazionali irachene».

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