Da Corriere della Sera del 04/03/2004

Due ipotesi per due Americhe

di Gianni Riotta

Le due Americhe hanno scelto i campioni, George Walker Bush contro John Forbes Kerry. La sfida di novembre per la Casa Bianca, tra il presidente repubblicano e il senatore democratico, è fissata. Bush rappresenterà il Paese persuaso che le stragi dell’11 settembre giustifichino la strategia solitaria, che la guerra a Saddam Hussein resti cruciale, che i tagli fiscali siano la terapia migliore per fermare l’emorragia di posti di lavoro (2.600.000 perduti dal 2001). Una nazione religiosa, che s’angoscia davanti al matrimonio degli omosessuali e crede alla pena di morte. Il senatore Kerry si propone come erede dell’America di John e Bob Kennedy, non temuta ma ammirata, vuole più tasse per i ricchi, dialogo con l’Onu e l’Europa sul caos a Bagdad, preferisce toni laici, disapprova le sentenze capitali e non emenderà la Costituzione per dir no ai fiori d’arancio gay. Chi crede alla fola dei due partiti americani senza identità sarà smentito negli otto mesi di una campagna che potrebbe rivelarsi la più brutale a memoria d’uomo. Due terzi degli elettori, secondo l’Università di Pennsylvania, non hanno ancora le idee chiare e la battaglia di spot mira agli incerti. Bush ha in cassaforte 146 milioni di dollari (120 milioni di euro) e da oggi inonderà di propaganda gli Stati decisivi (Ohio, Wisconsin, Florida, New Hampshire) per definire Kerry non solo nella coscienza dei cittadini, ma soprattutto nelle loro emozioni profonde. Il Kerry ritratto dal consigliere di Bush, Karl Rove, è un sessantottino dedito agli spinelli, giudicato dall’associazione Ada «il senatore più di sinistra degli anni 90», imbelle contro Osama Bin Laden e pronto a imporre balzelli fiscali.

Kerry, 33 milioni di dollari già raccolti, anticipa la replica: «L’amministrazione Bush ha condotto la più inetta, irresponsabile, arrogante e ideologica politica estera della storia moderna... Bush divide in due la nazione». La campagna democratica punterà sul disordine in Iraq, l’economia che danneggia i lavoratori (i proclami protezionistici però, in caso di vittoria, finiranno nel cassetto) e su valori che «uniscano, non lacerino».

Se davvero il carattere degli Stati Uniti è forgiato dalla scelta morale dell’individuo, mito che filtra dalla filosofia di Tocqueville, all’epopea del Far West, a Il vecchio e il mare di Hemingway fino a Kill Bill del regista postmoderno Tarantino, la campagna 2004 emozionerà milioni di persone. Bush sa che Kerry è debole tra gli elettori indipendenti, segmento sociale dove è stato battuto dai rivali Edwards e Dean. Kerry sa che la retorica da crociata inquieta i moderati e che un quarto dei repubblicani detesta ormai la lobby Halliburton, legata al vicepresidente Cheney.

Alla campagna della superpotenza assiste, spettatore interessato, il mondo. Osama ne attende l’esito, come i mercati, le oligarchie di Mosca e Pechino, i leader dell’Unione Europea, i Paesi ribelli sul commercio del G24 guidati dal Brasile di Lula. Il match 2004 rischia di indurre paralisi, nessuno che s’impegni in Iraq aspettando il superstite tra George&John, trattative bloccate in Medio Oriente, negoziati su tariffe e sussidi fermi fino a novembre, Onu e Kofi Annan che prendono tempo, misurando l’interlocutore. Il duello campale di idee, fede e culture tra George Walker Bush e John Forbes Kerry prova quanto divisa sia l’America del XXI secolo, ma la vigilia preoccupata del pianeta conferma quanto coesa dagli interessi sia l’età globale. L’11 settembre 2001, in solidarietà commossa, il Corriere e Le Monde scrissero: «Siamo tutti americani». Lo restiamo, pur fra tanti dissensi, perché la pace e la guerra del nostro tempo, come gran parte della nostra vita quotidiana, dipendono dalla scelta tra Bush e Kerry.

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