Da Il Manifesto del 04/03/2004

Con Kerry si può

di Marco D'Eramo

L'anti-Bush della campagna presidenziale 2004 sarà il senatore del Massachusetts John Forbes Kerry (JFK). È l'annunciato verdetto del «supermartedì» che ha concentrato le primarie di ben 10 stati, tra cui i più importanti in assoluto, New York e California. Contro le aspettative, sono bastati meno di 40 giorni per decidere quella che alla vigilia sembrava un'incertissima lotta al coltello. Tra il 20 gennaio e l'altro ieri, sono stati spazzati via gli altri otto pretendenti, alcuni molto pesanti, alla nomination democratica. Sono forse pacificate le micidiali lotte intestine da cui era dilaniato il partito democratico e di cui erano espressione le nove candidature alla nomination? Assolutamente no, e lo si vedrà negli otto mesi che ci separano dal voto del 2 novembre. Ma dalla base dei militanti (quella che vota nelle primarie) sono venute due indicazioni inequivocabili: priorità numero uno, battere George W. Bush; priorità numero due, fare quadrato intorno all'anti-Bush con maggiori probabilità di vittoria. All'inizio Kerry partiva svantaggiato perché proviene dalla Nuova Inghilterra, discende dalla famiglia di banchieri Forbes, è figlio di diplomatico, ha studiato in Svizzera - quanto di più lontano dall'«America profonda» -, tanto che i repubblicani avevano già cominciato a massacrarlo dandogli del «francese»: di questi tempi il peggiore insulto negli Usa. Kerry ha superato l'handicap grazie allo stato maggiore e al segretario del partito democratico, Terry McAuliffe, che, per sbarrare la strada a Howard Dean, a gennaio hanno puntato su di lui come candidatura di mediazione, liberal ma moderata. Subito dopo Kerry ha ricevuto il sostegno dei sindacati e degli altri notabili prima schierati con l'ex governatore del Vermont. Da qui lo slogan sugli adesivi delle auto: «Ho flirtato con Dean, ma mi sposo con Kerry».

L'apparato lo ha scelto, e la base lo ha votato, contando sui suoi eroici trascorsi militari, sulle cinque medaglie conquistate nella guerra del Vietnam: nessuno può dire che non è patriottico. Ed è il patriottismo il tasto dolente per i democratici. E' dall'11 settembre 2001 che i repubblicani li intrappolano su questo tema: ogni e qualunque critica alla politica di Bush, Cheney e Rumsfeld è subito stigmatizzata come anti-patriottica e disfattista. Con Kerry il giochetto è impossibile, anzi è un boomerang: è Bush che viene indagato sul suo essersi imboscato durante la guerra in Vietnam. Nel contempo Kerry rassicura lo schieramento pacifista perché negli anni `70 manifestò contro guerra in Vietnam che aveva combattuto, e perché negli ultimi tempi la sua opposizione alla guerra in Iraq si è fatta meno esitante. Dà perciò garanzie sui due versanti del tema patriottico.

È presto per disquisire sui temi che i due campi useranno in campagna elettorale. Ma il dato inequivocabile, e impensabile solo sei mesi fa, è che oggi tra Kerry e Bush c'è partita, che la rielezione di Bush non è scontata. Lo dimostra l'aggressività scomposta dei primi attacchi di Bush: finché i sondaggi lo rassicuravano, ostentava una serenità al di sopra della mischia, ma ora deve sporcarsi le mani. Da cui l'inevitabile corollario: è iniziata la sporca guerra a colpi di rivelazioni, scandali sessuali e contributi illeciti. La strategia repubblicana è chiara, le prime bordate di assaggio sono già partite: il fotomontaggio di Kerry con Jane Fonda, le indiscrezioni su una sua presunta amante. Ma erano solo ballons d'essai. Ora dobbiamo aspettarci l'artiglieria pesante e cioè, per usare un'espressione molto americana, che the shit hit the fan, che «la merda colpisca il ventilatore».

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