Da Corriere della Sera del 01/03/2004

Alla vigilia delle primarie democratiche del Supermartedì, l’unico vero rivale di Kerry alza il tono della campagna

Edwards gioca tutto sul lavoro «Bush ha perso due milioni di posti»

Il candidato fa leva sul protezionismo e grida: «L’occupazione si è spostata in India»

di Gianni Riotta

NEW YORK - Dietro il Grand Concourse, il viale del Bronx dove generazioni di irlandesi, ebrei, italiani, afroamericani e portoricani hanno fatto scuola di strada per diventare cittadini americani, si apre un grande parco. Non un giardino curato con platani, specchi d'acqua e statue come il Central Park di Manhattan, un enorme slargo d'erba ingiallita ora punteggiata di neve sporca, dove, non appena il tempo lo permette, si gioca al calcio. Le squadre sono improvvisate, portiere un vetraio dell'Honduras, mediano un installatore di cavi tv portoricano, laterale un taxista di notte pakistano e in attacco un universitario disoccupato con il nonno nato a Siracusa. Nell'intervallo scappano nella «bodega» di fronte, a comprare acqua, caffè nero e bagels , i panini rotondi arrivati qui dall'Europa orientale.

Non importa chi vince o chi perde, la conversazione va su «jobs, jobs, jobs», lavoro, lavoro, lavoro. Sentito nulla? Visto l'annuncio sul New York Times della domenica? Ha richiamato il cinese per quella casa da ridipingere? Dopo l'11 settembre 2001 il Bronx ha perduto 80.000 posti di lavoro, in maggioranza da 35.000 euro l'anno, lavoratori in tuta blu si sarebbe detto una volta. Qualcosa è tornato, ma la paura di vedere il proprio lavoro cancellato e di passare mesi a cercarne un altro, la partita settimanale a indicare il tempo che trascorre con i platani che perdono e mettono le foglie, pesa sui ragazzi e le loro famiglie.

Da quando George W. Bush è alla Casa Bianca, l'economia Usa ha perduto 2.300.000 posti di lavoro. Il presidente aveva promesso di crearne 2.600.000, non ce l'ha fatta e potrebbe chiudere il mandato, per la prima volta dai tempi nefasti di Herbert Hoover, con un saldo negativo di stipendi. Quanto basta perché i due sfidanti superstiti per le presidenziali di novembre, il senatore John Kerry, favorito, e il senatore John Edwards, outsider, pensino ai milioni di ragazzi gemelli dei calciatori dilettanti del Bronx, ai loro fratelli e sorelle, ai loro genitori e si battano nella campagna per il lavoro. Martedì si vota in una tornata gigante di primarie, da qui a New York alla California, all'Ohio, uno degli Stati in bilico tra i partiti, e la Georgia, e la polemica sui lavori che vanno all'estero, i capitalisti che profittano dei dolori dei disoccupati e l'età dell'oro di Bill Clinton, che vide fiorire 23 milioni di nuovi salari, diventano pane quotidiano.

E' soprattutto John Edwards, figlio di un operaio, nato in South Carolina e cresciuto nel North Carolina, cuore del vecchio Sud, a spolverare le bandiere protezionistiche. Edwards è un avvocato diventato ricco rivendicando risarcimenti per le vittime di incidenti, la forma di lotta di classe più diffusa nel XXI secolo.

Parla benissimo, è di gran lunga il miglior oratore. Il suo discorso illustra le pene delle «Due Americhe», una che dispone della miglior sanità al mondo e una che fatica a farsi accettare al Pronto Soccorso, una che frequenta le università prestigiose e una che stenta a finire le medie, una che gode dei tagli fiscali di Bush e una che rincorre il salario per finire la settimana. Ieri i candidati avevano appuntamento a New York per l'ultimo dibattito prima di quello che i giornali hanno pomposamente battezzato «Supermartedì» e al quartier generale di Edwards, sotto il manifesto dell'azzimato senatore, mai un capello fuori posto dopo 18 ore di comizi e panini rosicchiati in aereo, una volontaria gentile dagli occhiali rotondi illustra i numeri: «Sotto Bush 2.300.000 posti di lavoro perduti. Siamo andati malissimo nell'industria, -2.869.000, male nel commercio, -392.500 e nella comunicazione e servizi, -544.000. A fermare l'emorragia la scuola e la sanità, »1.441.000, il tempo libero »244.000 e la finanza, »240.000». L'America più semplice paga il costo della follia fiscale di Bush», conclude la ragazza, morsicando una mela organica «cresciuta qui a New York» precisa.

Per Edwards, e a traino per Kerry che non vuole regalargli il tema, l'America sotto Bush II è un Paese che svende in India la telefonia, l'informatica, fa fabbricare in Cina i giocattoli e sposta in Messico le industrie inquinanti, creando un deserto nelle vecchie capitali industriali, Chicago, Detroit, Toledo. Per altri commentatori è la cruda, ma realistica, società postmoderna, dove la produzione si trasferisce nei Paesi poveri e i servizi e la creazione di nuovi saperi sono la ricchezza del mondo sviluppato. Nafta, l'accordo di libero commercio voluto da Clinton con Messico e Canada, malgrado l'opposizione dei sindacati, è costato solo mezzo milione di posti di lavoro in dieci anni, e lo stesso Kerry lo ha votato, salvo pentirsene nel revival neoprotezionistico. Quanto all'India, meno del 10% dei posti di lavoro rimpianti da Edwards nel suo forbito comizio «la maggior parte dei centralini sorge oggi nel subcontinente indiano» è emigrato a Mumbay o Bangalore.

Gli accademici lo sanno e il professor Gregory Mankiw, consigliere economico di Bush, lo ha detto con semplicità: «L'outsourcing (far produrre altrove beni una volta prodotti internamente) è solo una forma moderna del commercio internazionale, oggi commerciamo tante cose che prima non trattavamo e questa è una novità positiva». In un seminario ad Harvard con giovani manager la morale del professor Mankiw è coerente, ma Edwards pensa alla paura di chi se ne infischia delle statistiche ed è tormentato dal mutuo, il sito Internet del sindacato Afl-Cio sbeffeggia Mankiw in prima pagina e Kerry denuncia come «Benedict Arnold» (famoso traditore della storia patriottica americana) i managers e le aziende che esportano lavoro. Poco conta che questi managers e aziende sostengano con pingui assegni la campagna di Kerry.

Bush reagisce tardivamente, lo speaker della Camera dei deputati, Dennis Hastert, impone a Mankiw un'umiliante ritrattazione. La teoria economica può essere stravolta, basta non spaventare gli elettori, dai calciatori del Bronx alle tute blu dell'Ohio agli informatici in blue jeans della California. Chi ha ragione? La saggista Virginia Postrel accusa le statistiche, «contano i metalmeccanici ma non registrano i 200.000 terapisti del massaggio e le 300.000 manicure che lavorano a tempo pieno» a rilassare un popolo inquieto. Giusto, ma quel che conta in un'elezione è la percezione del problema, il sentimento, non le cifre. Mille ragazzine cinesi che limano unghie e stendono smalto non valgono un metalmeccanico di Detroit disoccupato, cantato nei rap di Eminem.

Né Kerry, né Edwards, se eletti, rinchiuderanno l'America in una fortezza protezionistica. Il governatore della Banca centrale Alan Greenspan li ha ammoniti: «Il nostro sistema è sotto un grande stress... dobbiamo guardare avanti e adattare il sistema scolastico ai bisogni nuovi dell'economia. Il protezionismo non crea nuovo lavoro, e se all'estero ci saranno contromisure, allora sì che perderemo occupazione. Dobbiamo scoprire nuovi mezzi per migliorare la capacità dei nostri lavoratori e aprire ancora i mercati, da noi e all'estero». I ragazzini del Bronx hanno scarpe da calcio che costano solo una dozzina di euro perché fatte in Cina, i loro jeans economici sono cuciti in Nicaragua e la telefonata al cellulare con la girlfriend più accessibile grazie ai centralinisti indiani. Questa è la verità del 3 novembre. Dal prossimo Supermartedì alle elezioni sarà battaglia su lavoro e Edwards, Kerry e Bush marceranno davanti ai lavoratori, come se il prato del Bronx fosse la tela del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.

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