Da La Repubblica del 14/02/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/b/sezioni/politica/cdlverifica2/percezio...

Le percezioni del Cavaliere e i numeri della realtà

di Massimo Giannini

"I DATI Istat confermano la ripresa", dice Silvio Berlusconi. La sua fede è incrollabile, la sua perseveranza è granitica. Solo tre giorni fa, nel conciliante salotto televisivo di Bruno Vespa, aveva annunciato che "c'è stato un arricchimento generale del Paese". Purtroppo per il Cavaliere e per gli italiani, i dati diffusi ieri dall'Istat confermano l'esatto contrario. Nell'ultimo trimestre del 2003 l'Italia ha battuto il record negativo di Eurolandia: crescita zero. Il Prodotto interno lordo, la ricchezza generata dal Paese, è rimasta ferma rispetto ai tre mesi precedenti. Nello stesso periodo, la Germania è cresciuta dello 0,2%, la Francia dello 0,5%, la Gran Bretagna dello 0,8%. Forse il presidente del Consiglio è solo sfortunato. Ma è più probabile che abbia ragione Pierluigi Bersani, che da qualche giorno va sottolineando l'attitudine sempre più "dadaista" del Cavaliere. La sua propensione sempre più marcata a negare dati e valori razionali e riconosciuti. Il suo rapporto sempre più fantasmatico con la realtà.

La realtà sono i numeri. I numeri dicono che in tutto il 2003, il Pil italiano si è incrementato solo dello 0,4%. È questo risibile aumento che fa dire al Cavaliere "c'è la ripresa". Ma fermarsi a guardare il dito (l'andamento anno su anno) serve a nascondere la luna (l'andamento mese su mese). E in ogni caso, anche il dato tendenziale dello 0,4% è meno dello 0,5% previsto e confermato dal governo alla Commissione Ue proprio martedì scorso. Meno dello 0,7% fissato come media dei 15 Paesi di Eurolandia. Con questo ritmo di crescita, le stime di Tremonti per il 2004, (un aumento del Pil dell'1,9%) e quelle ancora più esaltanti annunciate dallo stesso Berlusconi a "Porta a Porta" (un aumento "superiore al 2%") sono già saltate.

Il Fondo monetario internazionale le ha già ridimensionate all'1,7%, la Commissione Europea addirittura all'1,5%. E ieri, dopo l'ultimo dato Istat, gli analisti consultati dall'agenzia "Radiocor" si spingevano anche oltre, ipotizzando una crescita della reddito nazionale di appena l'1,3% per quest'anno. I numeri dicono che anche la produzione industriale, a dicembre, ha registrato una battuta d'arresto: meno 0,2% rispetto a novembre. Nell'intero 2003 il calo produttivo è stato dello 0,8%. Non c'è nessun compiacimento, nel prendere atto di questo amarissimi responsi congiunturali. Se nell'opposizione c'è qualcuno che si lascia travolgere da antiche suggestioni "sfasciste" o "peggioriste" commette un grave errore. Nessuno ha qualcosa da guadagnare, se secondo il World Economic Forum l'Italia scivola al quarantunesimo posto nella classifica mondiale della competitività. Ma non è stato Romano Prodi, ieri, ad affermare che di questo passo "l'Italia rischia di diventare il fanalino di coda in Europa". È stato invece il presidente della Confindustria D'Amato, "grande elettore" del centrodestra alle elezioni del giugno 2001. Non sono stati i leader dei Ds e della Margherita Fassino e Rutelli, ieri, ad affermare che "l'economia preoccupa ed è in stato di difficoltà". È stato invece il presidente della Camera Casini, il più autorevole rappresentante di un partito di maggioranza dentro le istituzioni repubblicane.

Unico titolare di un orwelliano "ministero della Verità", Berlusconi racconta agli italiani un'Italia che non c'è. "Il ceto medio consuma come prima, stipendi e consumi sono cresciuti più dell'inflazione", ha sentenziato ancora nel suo comizio da Vespa. Eppure, non sono quei "bugiardi sovversivi" dell'Eurispes a confermare che in Italia ci sono 2,5 milioni di "famiglie povere", che diventano 4,2 milioni se si aggiungono anche le famiglie "a rischio di povertà". Sono invece gli statistici dell'Istat, che giusto ieri il Cavaliere ha avuto la bontà di promuovere, giudicandoli "scientifici". C'è una ragione politica, che spinge il presidente del Consiglio verso il paradosso dadaista. Siamo in campagna elettorale. Il Polo ha vinto le elezioni del 2001 scommettendo sul miracolo economico e spendendo due slogan semplici ma efficaci: "sarete tutti più ricchi", "pagherete tutti meno tasse". A distanza di tre anni, nessuna delle due promesse è stata mantenuta. L'opposizione di centrosinistra, con la benedizione di Prodi, cavalcherà questo palese insuccesso alle europee e le amministrative di giugno. Berlusconi lo sa, e gioca d'anticipo.

Ma forse per la prima volta dalla sua "discesa in campo" del '94, il Grande Comunicatore non è in sintonia con gli umori profondi della società. Vede un'Italia ricca, mentre il Paese si sente più povero. La sua offensiva mediatica "investe" su una zona grigia: il rapporto tra realtà e percezione. Punta chiaramente a sovvertire la "realtà fattuale", lavorando a colpi di propaganda sulla "realtà percepita" soprattutto dagli strati sociali più deboli. Lo confermano le intemerate contro i "soloni" dell'opposizione e le "cassandre" del malaugurio uscite sulla stampa "di famiglia", da Panorama al Foglio di Giuliano Ferrara. Ma proprio a Berlusconi, che si considera l'Imprenditore d'Italia, non può sfuggire un dato elementare: le percezioni, in economia, coincidono fatalmente con la realtà. La anticipano, e al tempo stesso la materializzano. Sono quelle che in gergo si chiamano "aspettative". Cioè profezie che si autoavverano. Nel caso specifico: se anche fosse vero che l'Italia è oggettivamente più ricca e appagata (e purtroppo non lo è) quello che conta è che non ci si sente affatto. Al contrario, si percepisce addirittura più povera e più fragile. E questo basta a farcela diventare davvero. A influenzarne la condizione psicologica, i comportamenti di consumo, le scelte di risparmio e di investimento.

Su questo equivoco non riconosciuto il Cavaliere rischia di perdere davvero la partita elettorale di giugno. Il suo populismo plebiscitario e telecratico, costantemente modulato sui desideri e le speranze del gente attraverso i sondaggi e i focus group, questa volta risulta clamorosamente afasico rispetto al sentire comune più diffuso. Anche di quelle categorie sociali che lo hanno votato, e che oggi più delle altre avvertono i rischi del declino e dell'emarginazione. Scrive Ilvo Diamanti, nel suo illuminante saggio "Bianco, rosso, verde e... azzurro": "Nella regione azzurra del Nord la popolazione è più anziana, il nucleo familiare più ristretto... con un peso più alto del lavoro indipendente (commercianti, artigiani, piccoli e grandi imprenditori) e dei lavoratori dipendenti privati, ma anche parallelamente, dei pensionati... Nella regione azzurra del Sud, invece, prevalgono il ceto medio dipendente, per lo più il pubblico impiego), le casalinghe e gli studenti". Se questo è il profilo dell'elettorato forzista, zoccolo duro della Casa delle libertà, non c'è dubbio che proprio in questo bacino sociale si concentrano oggi i disagi più acuti e, sotto il profilo della "sismografia" politica, più destabilizzanti.

Gli unici che hanno fiutato il pericolo (o che non hanno fatto finta di non vederlo) sono stati Gianfranco Fini e Marco Follini. L'"attacco" a Tremonti, da questo punto di vista, nascondeva molto di più che una semplice guerra di poltrone. Era un tentativo di cambiare l'indirizzo della politica economica, che fino ad oggi non è esistita. Si è limitata a galleggiare di volta in volta su questa o quell'onda (i consumatori sull'euro o i risparmiatori su Cirio-Parmalat) senza mai andare al fondo dei problemi strutturali dell'economia: la modernizzazione del mercato del lavoro insieme alla riqualificazione del Welfare, i tagli alla spesa previdenziale insieme agli investimenti in formazione e ricerca, le privatizzazioni insieme alle liberalizzazioni.

La "verifica permanente" dentro la maggioranza si sta per concludere come sappiamo. Con An e Udc, i "partiti del 6%", umiliati e schiantati da Forza Italia, il "partito del 60%". Con Fini e Follini costretti all'ennesima e sempre più indecorosa ritirata. Con un documento che reinventa un vecchio istituto craxiano, il "consiglio di gabinetto", e ripete i soliti, chimerici propositi. Ma lascia le leve del comando nella solide mani del premier e del suo superministro del Tesoro, e lascia parecchi milioni di italiani a tirare a campare fino al 27 del mese. Il "preambolo" lo inventò Donat Cattin nell'80, insieme a Forlani e Piccoli, per far fuori Zaccagnini dal vertice della Dc e chiudere una volta per tutte la fase di collaborazione con il Pci di Berlinguer. Se oggi serve a rinverdire l'"Union sacrè anticomunista" tanto cara al Cavaliere, sicuramente non servirà domani a produrre ricchezza e ad accrescere il reddito nazionale. Sarà solo un'altra prova della deriva dadaista del premier.

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