Da La Repubblica del 02/01/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/economia/redditi/seimilioni/se...

L'Ires-Cgil: nel periodo '91-2003 il potere d'acquisto dei dipendenti è diminuito dello 0,5 per cento

Sei milioni di lavoratori vicini alla soglia di povertà

Cresce solo la produttività. Nell'ultimo decennio meno del 20% della ricchezza è andata al fattore lavoro

di Riccardo De Gennaro

ROMA - Tre milioni di lavoratori con un salario netto compreso tra i 600 e gli 800 euro, altri tre milioni circa con una busta paga un po' più consistente, ma che raggiunge a malapena i 1.000 euro. I "lavoratori poveri", coloro che pur lavorando tutti i giorni gravitano intorno alla soglia di povertà, sono sei milioni. Tanti. La stima è contenuta in uno studio dell'Ires-Cgil sulla politica dei redditi e la dinamica delle retribuzioni nel 2003, che verrà presentato nelle prossime settimane.

Dallo studio emerge un fatto nuovo, particolarmente inquietante: se è vero che il "lavoratore povero" nasce come prodotto dei contratti atipici, della flessibilità, del sommerso diffuso, è altrettanto vero che oggi il fenomeno ha ormai raggiunto "anche categorie storiche del cosiddetto "made in Italy", dell'edilizia, dell'artigianato, dei servizi". Lavorano, ma hanno un livello di vita che è poco sopra quello di un disoccupato.

Il rischio è che con i tagli al Welfare, lo spostamento dell'asse dei servizi dal pubblico al privato, l'aumento dell'inflazione, il numero dei lavoratori che non riescono ad arrivare a fine mese continui ad aumentare. Di qui l'urgenza, sottolinea l'Ires-Cgil, di tornare a parlare a partire dalle condizioni reali dei lavoratori e non più in termini di "media statistica". Di riaprire, dunque, la questione salariale, attraverso una nuova politica dei redditi che passi per il rilancio della concertazione e restituisca dignità al lavoro.

Qual è la causa della progressiva povertà dei salari? La mancata distribuzione al fattore lavoro della produttività delle imprese. Che non è prevista, nonostante la solitaria battaglia della Fiom tra i metalmeccanici, a livello di contratto nazionale e che riguarda un numero limitato di aziende a livello di contrattazione integrativa.

I risultati dei confronti internazionali sono preoccupanti. Da un'elaborazione dell'Ires-Cgil su dati Ocse e Istat emerge che nel decennio '91-2000 in Italia le retribuzioni lorde sono aumentate - in termini reali (cioè depurati dall'inflazione) - soltanto del 3,3%, a fronte di un aumento della produttività reale per addetto del 18,7%. Nello stesso periodo, in Germania le retribuzioni reali sono aumentate del 9,1% (contro una crescita della produttività per addetto del 21,1), in Francia dell'8,% (33,6), in Danimarca del 12,9 (18,9). Nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti la forbice è più ampia: negli Usa addirittura la produttività per addetto nel decennio è salita del 40%, mentre i salari reali sono cresciuti soltanto dell'1,5%.

Ma nel 2003, per la prima volta dopo vent'anni, le retribuzioni di fatto sono aumentate meno dell'inflazione, determinando una perdita secca di potere d'acquisto. Nel 2003 una famiglia di tre persone con due redditi medi da lavoro dipendente ha perso potere d'acquisto per 720 euro: causa la flessione della retribuzione e la mancata restituzione del fiscal drag. Nel 2003 gli italiani risultano di fatto più poveri dello 0,5% rispetto al '91. "Tra il '96 e il 2001 si recupera potere d'acquisto, ma negli ultimi tre anni - dice Megale - è ripreso il declino, i lavoratori non hanno più visto un centesimo di produttività. Il governo Berlusconi ha adottato una sorta di riduzione programmata e strutturale dei salari".

C'è qualcosa che non funziona nella redistribuzione del reddito: i meccanismi sembrano girare al contrario. Le retribuzioni lorde pesano attualmente sul Pil per il 30%, ma erano pari al 36% nell'82. I profitti, invece, sono aumentati, in rapporto al Pil, di cinque punti percentuali: oggi, insieme ai redditi netti da lavoro autonomo, pesano per il 31,9% del Pil. Lo si può dire anche così: "Nell'ultimo decennio - scrive l'Ires - meno del 20% della ricchezza prodotta è andata al lavoro, contro oltre l'80% finito a profitti e tasse". Significa che la concertazione non è stata favorevole ai lavoratori. "Va ripristinata, ma rivista", dice il presidente Ires, Agostino Megale. Il quale ammette che "la vecchia politica dei redditi non funziona più: bisogna fissare un'inflazione programmata più vicina a quella reale e mantenere i salari al di sopra dell'inflazione redistribuendo al lavoro oltre il 50 per cento degli incrementi della produttività".

Lo slogan dell'Ires è infatti questo: "Fare crescere la produttività e darne di più al lavoro". L'Ires chiede "politiche contrattuali che rivalutino il lavoro operaio pagando di più disagi e flessibilità", politiche fiscali che sostengano la crescita dei redditi bassi, l'introduzione di un indice di riferimento al paniere reale delle famiglie, più vicino del paniere Istat ai consumi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. L'Ires-Cgil fa questo esempio: "Due pensionati con un reddito familiare di 16mila euro hanno avuto un'inflazione del 4-5 per cento".

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