Da Corriere della Sera del 20/01/2004

Il fattore economia

Nel ghetto bianco resiste il sogno americano

A Detroit anche gli «straccioni di Eight Mile» si considerano classe media. E la Casa Bianca spera nel loro voto

di Gianni Riotta

E oggi, dietro il boulevard di cemento di Eight Mile, antiche aziende arrugginiscono, una in fila all'altra. Saltate su un rigagnolo di fango velenoso, girate dietro la carcassa di una Chevrolet familiare bruciata la notte di Halloween, durante il sabba metropolitano delle gangs criminali, e vi appaiono silos svuotati, reticolati pencolanti, tettoie di Eternit che gemono al vento. Un Vietnam dell'industria. Ultima a lasciare la Electrolux AB, 2700 licenziati, riaprirà in Messico dove gli operai anziché 15 dollari l'ora (dodici euro) ne guadagnano 1 e mezzo, per montare frigidaire. Il Michigan ha perduto 170.000 posti di lavoro, gli Stati Uniti 2.800.000 dal 2001. L'autunno ha creato occupazione lentamente, 125.000 posti al mese, per mandare giù l'indice fermo a 5,8% di senza lavoro ne occorrono almeno 150.000 ogni trenta giorni.

Le baracche di Eminem sono «mobile home», roulotte giganti lasciate ad ammuffire nel «parco» dove l'artista è cresciuto, un ghetto tra i Tir di Eight Mile e un'infernale lavanderia a gettoni, il bucato a fare da baby sitter a un bebè girando ossessivo nell'oblò della lavatrice (Made in Mexico), e il guardiano già immerso nel film porno, alle dieci del mattino. Eppure, appena mettete piede tra le baracche biancastre, una vecchietta malvestita vi caccia a urla, «Avete il permesso dell'ufficio?».

L'ufficio è la più malmessa delle baracche, finestre di plastica rotta con appiccicata una bandierina a stelle e strisce a parare il vento, ma il messaggio è chiaro: non vogliamo essere il simbolo dell'America povera, «white trash», spazzatura bianca, che Eminem e i suoi dannati rap miliardari hanno reso famosa. La baraccopoli di Eight Miles, gelata d'inverno, un forno d'estate, non rinuncia a immaginarsi «middle class», ceto medio, anche se sopravvive di sussidi, espedienti, lavoretti a ore.

L'ultimo sondaggio del New York Times , pubblicato alla vigilia del voto di ieri, lunedì, in Iowa per le elezioni primarie democratiche, testimonia che il presidente repubblicano George W. Bush è per ora imprendibile sul tema della guerra al terrorismo, con il favore del 68% dei cittadini. Sull'economia invece il 54% spera in un miglioramento, ma l'altra metà si dice ansiosa, preoccupata. Meno di un americano su tre giudica positivi i tagli alle tasse di Bush e due su tre sono persuasi che «big business», le multinazionali, abbiano «troppa influenza» sulla Casa Bianca. Se gli sfidanti dell'opposizione, Howard Dean, Wesley Clark, John Kerry, John Edwards, Dick Gephardt, hanno qualche speranza di sfrattare George Bush figlio, la formula potrebbe rivelarsi la stessa con cui Bill Clinton sfrattò Bush padre nel 1992: «It's the economy, stupid», pensa all'economia, stupido! Spiegare come funziona la piramide sociale americana, da Bill Gates di Microsoft giù fino alla vecchina che ci caccia da Eight Mile, non è semplice. Bisogna leggere i dati, ma occorre soprattutto valutare l'effetto psicologico dei numeri sulle persone: se la custode inferocita di Detroit si considera ceto medio e non sottoproletariato urbano, voterà di conseguenza e la piramide diventa un capolavoro irto di guglie alla Frank Gehry. Dopo la bolla speculativa su Internet e l'attacco alle Torri Gemelle, l'economia Usa ha ripreso a funzionare. La maggioranza dei cittadini può aspettarsi un 2004 migliore del 2003 e questo è un buon pronostico per Bush II alla Casa Bianca. Ma chi ha perduto il lavoro deve cercarlo sempre più a lungo, fino a 20 settimane, ed è probabile che, tornato in fabbrica o in ufficio, debba accettare mansioni e retribuzione peggiori. A rischio anche i dirigenti, la Ibm ha trasferito in India 5000 poltrone da manager, la Accenture 10.000.

Tra gli informatici 7 su 100 sono disoccupati, il loro lavoro è emigrato a Bangalore, India. Risultato: la prima fascia degli americani può retrocedere, la seconda prova rabbia per essere retrocessa. Ansia e rabbia che a Detroit diventano industria culturale globale, con Eminem, e che Howard Dean spera invece di cantare nel rap della vittoria da outsider.

A tenere viva la superpotenza Usa, secondo lo studioso Robert Samuelson, è «la straordinaria caparbietà dell'economia». La produttività del sistema è cresciuta nel 2002 del 4,8%, senza aumentare ore di lavoro ogni addetto produce di più, record dagli anni '50. Secondo il rapporto 2003 della New America Foundation «la produttività e il tenore di vita continueranno a migliorare per i prossimi cinque-dieci anni». E' il successo segreto della Nuova Economia, non visto dagli speculatori: i computer e le tecnologie rafforzano gli standard aziendali. Wal-Mart, la catena dei grandi magazzini che ha mutato il volto delle periferie con i suoi scaffali spartani e le tute di cotone grezzo dei commessi, ha raddoppiato in dieci anni il fatturato, grazie a un'efficienza micidiale. I critici denunciano lo stile da Manchester 1848, la notte i magazzinieri vengono chiusi a chiave nei supermarket, per evitare furti e assenteismo, la Wal-Mart replica che i prezzi stracciati agevolano i consumatori poveri.

Secondo New America Foundation, la realtà economica contraddittoria confonde gli elettori. I milionari sono 3.800.000, trecentomila più che nel 2002 e votano in massa, mentre i poveri disertano le urne. Un amministratore delegato guadagna in media 400 volte più di un operaio, record di tutti i tempi. Per la prima volta nella storia, ci sono nelle famiglie più automobili che patenti di guida. L'istituto McKinsey Global calcola che per ogni posto di lavoro trasferito all'estero le aziende risparmiano 58 centesimi a dollaro. I profitti ritornano in America, per investimenti e per pagare meglio chi dispone del sapere ambito dall'economia postindustriale.

Non dite quindi «stracciona» alla signora di Eight Mile: non crede di esserlo. Ma se le chiedete come va l'America vi risponderà, imprecando: uno schifo. Un sondaggio della Gallup certifica la schizofrenia, l'89% dei cittadini definisce «pessima o modesta» la situazione economica, ma alla domanda «E la vostra personale?» solo il 19% confessa preoccupazione per licenziamenti o tagli al salario, percentuale di ansia identica al 1997, il boom di Clinton. L'ottimismo pervade anche quella che si avvia a essere la più grande minoranza, dopo ispanici e neri, vale a dire i neocittadini nati all'estero ed emigrati negli Usa, 33 milioni e mezzo.

Se il deficit federale aperto dalle spese militari e civili di Bush non tormenta l'opinione pubblica, come tormenta lo studioso Paul Krugman, se gli americani lavorano da formiche ma consumano da cicale, se ogni famiglia è indebitata con mutui e carte di credito a livelli che in Europa farebbero paura, la spiegazione è nel costante, irrazionale, incontenibile ottimismo yankee. Il 60% degli americani, anche nella baraccopoli di Detroit e nella lavanderia porno, è persuaso che a forza di faticare avrà successo (fonte Pew). L'ottimismo fa nascere più bambini, 2,1 a donna contro 1,4 in Europa. Oggi l'Unione Europea, preallargamento, vanta 380 milioni di cittadini, età media 38 anni, contro 280 milioni di americani, età media 36. Nel 2050 gli Usa avranno fino a 550 milioni di abitanti, età media 36, superando in popolazione un'Europa di anziani, età media 53 anni (fonte Brookings Institution).

Se anche chi scende nella scala sociale non si sente un battuto, la campagna dei democratici sarà un labirinto, persuadere gli elettori che l'ansia per il sistema Paese è più importante della privata certezza di «farcela». I veri guai dell'economia Usa, infatti, si nascondono nel lungo periodo, che, come insegnava Lord Keynes, spaventa poco, visto che allora «saremo tutti morti». Il presidente Bush ha stracciato l'ortodossia repubblicana e, tagliando le tasse, ha incrementato la spesa. 87 miliardi per l'Iraq. 183 alla lobby agricola. 22 ai veterani. 400 per la riforma sanitaria. In totale per ogni 100 dollari che spendeva Clinton, Bush ne spende 127 e incassa meno in imposte. Il buco è coperto dagli stranieri che investono in titoli Usa, ma il debito è un oceano rosso da 3000 miliardi di dollari, circa un terzo del prodotto interno. Nelle sue memorie, «Un mondo incerto», l'ex ministro del Tesoro Robert Rubin considera il Paese «a rischio Argentina», bancarotta. Per David Ignatius del Washington Post il dilemma è invece geopolitico: Cina e Giappone hanno in cassaforte mille miliardi di dollari in buoni del Tesoro Usa, arma strategica puntata sulla valuta. Bush conosce il problema bene ma ha licenziato il ministro Paul O'Neill, colpevole di averglielo ricordato una volta di troppo. Il suo consigliere Karl Rove sa che si vota tra dieci mesi, prima che le onde del debito lambiscano Washington. Riusciranno i democratici a appassionare la matriarca di Eight Mile al deficit? Non sarà facile perché anche lei, come Eminem, Bush e tanti elettori, è ipnotizzata dal mantra rap delle formiche-cicale: «Se nella vita ti capitasse una sola volta l'opportunità di avere quel che hai sempre voluto...».

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