Da Corriere della Sera del 19/01/2004

I disarmati

La strage quotidiana di iracheni inermi «Siamo noi il bersaglio di questi assassini»

di Lorenzo Cremonesi

BAGDAD - All'ospedale Talimi di Najaf, il 29 agosto, l'obitorio era talmente pieno che i corpi venivano lasciati alla rinfusa nei 45 gradi all'ombra del cortile. Quasi cento cadaveri, praticamente tutti civili, per l'attentato più sanguinoso nell'Iraq del dopoguerra. I famigliari venivano a prenderseli alla spicciolata, con le bare di legno grezzo sul tetto dei taxi. Scene simili si sono viste negli ospedali di Bagdad dopo le autobombe contro la sede della Croce Rossa, il 27 ottobre (30 morti, tutti civili tranne due sentinelle irachene). E il 19 agosto contro il quartier generale dell'Onu, dove tra i 23 morti c'erano alcuni noti medici della capitale e professionisti considerati necessari alla ricostruzione del Paese.

Ieri alla confusione delle vittime trasportate con mezzi di fortuna al pronto soccorso del grande ospedale Al-Yarmuk si aggiungevano i ritardi del traffico caotico. All'interno le scene dei medici impreparati per far fronte ai casi più gravi, la sporcizia dei pavimenti, il sangue sulle barelle, il pianto dei parenti: l'impotenza di un sistema sanitario in ginocchio. «Maledetti terroristi. Maledetto Saddam, maledetta Al Qaeda. Chi mette le bombe non vuole il bene del nostro Paese. I terroristi arrivano dall'estero, si infiltrano da Siria e Arabia Saudita. Sono provocatori di Al Qaeda. E noi iracheni siamo le vittime», gridava Abdallah Ebi, che disperato cercava di avere notizie del figlio e del fratello.

«Lavoravano con gli americani. Potevano essere in coda davanti alle sentinelle quando è scoppiata la bomba. Li avete visti?», chiedeva a un gruppo di feriti.

Il suo è il lamento di un'intera popolazione diventata in effetti carne da cannone nella sfida senza quartiere tra le truppe della coalizione guidata dagli americani e le forze della guerriglia. I dati parlano da soli. La guerriglia mira alla coalizione, ma in effetti a farne le spese sono soprattutto gli iracheni, spesso i più indifesi, i poveri, i disoccupati. Quanti? Non esistono dati certi. Pochi giorni fa i media locali riportavano la cifra non ufficiale di circa 600 tra poliziotti e agenti della nuova difesa civile attaccati e uccisi dalla guerriglia a partire dai primi di giugno. Il numero delle vittime tra i cittadini inermi è però infinitamente più alto. Secondo l'organizzazione non governativa pacifista anglo-americana «Iraq Body Count», dall’inizio del conflitto ad oggi, potrebbe essere compreso tra 7.968 e 9.801. Un dato che dovrebbe includere i 3.240 morti civili che erano stati segnalati dalla Associated Press per il periodo della guerra dal 20 marzo alla fine di aprile e in generale ritenuto credibile. Altre fonti accademiche americane riportano però 13.000 morti nel periodo della sola guerra, tra cui quasi 4.000 civili.

In verità non esiste un censimento nazionale delle vittime. I dati vanno tutti letti con estrema cautela. Ancora oggi non c'è un numero ufficiale dei morti o feriti nel conflitto del 1991. Ma è indubbio che agli occhi della guerriglia le sofferenze degli iracheni contribuiscono a destabilizzare il nuovo ordine voluto da Washington. Ne risultano paura, insicurezza e in alcuni casi desiderio di ritornare alla protezione della dittatura. «Sin dai primi di luglio avevamo chiesto agli americani e alla Croce Rossa che bloccasse la strada davanti alle nostre case. Ma non è stato fatto assolutamente nulla. Ora chi pagherà i danni?», protestava poche settimane fa Mustafà Hassan, un militare in pensione residente a poche decine di metri dalla palazzina della Croce Rossa. La sua villa a due piani è stata devastata dall'esplosione del 27 ottobre. E Hassan ora non sa dove trovare i soldi per le ristrutturazioni. Protestano anche i proprietari delle abitazioni vicine alla caserma dei carabinieri distrutta dall'attentato del 12 novembre a Nassiriya. «La nostra casa ha avuto quasi 7.000 dollari di danni. Ma qui nessuno è mai venuto a offrici nulla», dice tra gli altri Alì Al-Bathawi, le cui due figlie di 17 e 30 anni sono rimaste ferite.

Ma non c'è stata protesta quando due giorni fa una mina nel cuore di Bagdad ha ucciso un ragazzino e ferito gravemente due suoi compagni. Il mese scorso una bomba ha ucciso 8 civili iracheni tra i tavoli di «Nabil», un noto ristorante del centro. Ma del resto sono quasi inesistenti le condanne popolari da quando, a partire da agosto, gli attentati alle stazioni della polizia locale hanno dilaniato centinaia di passanti. Perché la gente non scende in piazza contro la guerriglia? Forse qui sanno bene che agli americani e ai loro alleati si possono sempre chiedere indennizzi, con la speranza di ottenerli. Ma non ai gruppi armati locali. Anzi, corrono il rischio di venire assassinati come «collaborazionisti».

Sono i codici di comportamento di un Paese condizionato da tre decenni di dittatura militare. Difficile dimenticare le decine di migliaia di vittime di Saddam. E neppure il fatto che meno di un anno fa l'esercito aveva appostato le proprie unità attorno e nella capitale facendosi scudo con obbiettivi civili. I migliori battaglioni della Guardia Repubblicana si erano attestati tra quartieri popolari, ospedali, scuole e moschee.

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