Da Il Mattino del 19/01/2004
Originale su http://ilmattino.caltanet.it/hermes/20040119/NAZIONALE/12/GIRO1.htm

Colpire nel mucchio

di Vittorio Dell'Uva

I gestori del dopo Saddam, per conto di Bush, danno fondo allo stereotipato frasario della indignazione per dire «non pasaran», ma evitano pubblicamente di interrogarsi su quanto quotidianamente succede. Tutto viene, sostanzialmente, rinviato al prossimo, ineluttabile, massacro senza che emerga appieno la supremazia dei vincitori sui vinti.

Due visioni politiche, che si contrappongono, ne escono entrambe sconfitte. La guerra di resistenza perde, con i propri connotati, i valori morali che potrebbero esserle riconosciuti se non si fa confusione tra il nazionalismo e le sue manipolazioni al servizio di forme violente di autoritarismo. Provare ad allontanare la fase della stabilizzazione made in Usa, colpendo nel mucchio iracheno, indica il permanere di simpatie e complicità sul territorio che non poteva essere «bonificato» di colpo dopo trenta anni di regime, ma è anche sintomo di grande debolezza. In alternativa al vero nemico, che sempre di più si chiude in un guscio blindato, la guerriglia va a scegliersi un obiettivo debole e indifeso perpetrando una strategia del terrore legata più alla logica della vendetta che a un progetto politico di restaurazione reso evanescente dalla cattura di Saddam Hussein. E non sarà l’alleanza partigiani-kamikaze a rendere la sua azione più nobile. Il primato politico del martirio e delle stragi in chiave antioccidentale, suggerito dai profeti della violenza di matrice islamica allevati alla scuola di Osama Bin Laden, sarebbe un altro insopportabile insulto per la società irachena appena uscita da una brutale dittatura laica.

Gli Stati Uniti non peccano di meno con la presunzione e con le opere. Pagando pegno con la perdita quotidiana dei propri soldati e con la caduta di credibilità agli occhi di quegli iracheni che a loro si sono affidati invocando sicurezza nell’ambito di un nuovo contesto democratico e che scoprono di poter morire anche nel luogo più protetto di Baghdad. Che poco, sul piano militare, si possa opporre alla guerriglia e ancor meno al terrorismo è una scoperta che gli americani avrebbero dovuto fare da tempo. Ma al passo cadenzato, cui hanno preso ad abituarsi in Afghanistan, non sembrano davvero in grado di rinunciare. Per il suo attacco a Saddam, testardamente condotto anche quando era chiaro che non c’erano da neutralizzare armi di distruzioni di massa, l’America ha rafforzato i bicipiti e mandato le ruspe a scavare sotto i pilastri del Palazzo di vetro. Ma soprattutto non ha saputo o forse voluto ridurre successivamente l’impatto della sua forza dominante sulla popolazione civile «liberata». La prima fase del dopoguerra è stata dedicata alla caccia all’uomo con una determinazione da esorcisti più che da conquistatori. Mentre veniva imposto il modello burocratico statunitense, la società irachena non era influenzata dallo spirito riformista di cui il Paese aveva urgente bisogno. Bisognava inaugurare subito le prime scuole della democrazia stimolando, con l’esempio, le «iscrizioni» in una società passata dalla paura all’apatia. Molte «prime pietre», in una atmosfera di crescente insoddisfazione, aspettano ancora di venire poste.

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