Da Corriere della Sera del 30/12/2003

L’analisi

Il nazionalismo, malattia balcanica

di Massimo Nava

L'ultranazionalista Seselj alla guida del Paese, Milosevic in Parlamento. Scenari da film dell'orrore, ancora irreali, ma auspicati dalla quasi maggioranza dei serbi, secondo la lettura più immediata delle elezioni di domenica. Il nazionalismo vince e mette la fragile democrazia sotto una coltre di rancori antioccidentali, populismo rabbioso, soprattutto frustrazione, perché il «dopoMilosevic» ha portato disoccupati, corruzione, carovita, senza cominciare la ricostruzione civile e la marcia verso l'Europa. C'è indubbiamente uno specifico tutto serbo in una stagione politica che ha decapitato, anche fisicamente, i leader più credibili, umiliato i ceti intellettuali non compromessi con il regime e coltivato l'orgoglio distorto che nasce dalle ingiustizie patite (la condizione dei serbi del Kosovo) o vissute come tali (l'unico capo di Stato al mondo estradato e processato da un tribunale internazionale).

Un Paese in balia delle mafie, senza istituzioni, abbandonato al proprio destino da chi - Europa e Stati Uniti - avevano promesso valanghe di aiuti in cambio della consegna di Milosevic al Tribunale dell'Aja, non poteva che ripiegarsi su se stesso, tornando ad affogare nella mitologia della sconfitta che ha condizionato una storia secolare.

Ma la spirale del nazionalismo si allarga in un girone più ampio, che è quello balcanico. Nella Bosnia «pacificata» dall'eterna presenza della Nato, i partiti nazionalisti serbi, musulmani e croati sono tornati al potere. Non si scannano più, ma a malapena riescono a mettersi d'accordo per un sistema comune di distribuzione dell'elettricità. La presenza internazionale è l'unica vera industria di un Paese da dove sognano di fuggire diplomati e laureati.

Il Kosovo resta il buco nero dei Balcani, un limbo istituzionale, crocevia di violenza e illegalità sotto la bandiera del nazionalismo albanese. La Croazia, più stabile e più vicina all'Europa, si è riconsegnata in novembre al nazionalismo dell'Hdz, il partito fondato dal presidente Franjo Tudjman.

C'è di sicuro un rapporto di causa ed effetto fra sviluppi politici dei diversi Paesi. L'ascesa di Milosevic rafforzò il nazionalismo croato, come l'uscita di scena di Tudjman accelerò la caduta del leader serbo. Le opinioni pubbliche si condizionano a vicenda, anche perché, nonostante massacri e odi appena sopiti, le famiglie balcaniche si sono sempre parlate e oggi, in tempo di pace, i rapporti personali e commerciali si sono quasi normalizzati. I visti sono stati soppressi, il confine bosniaco si attraversa senza passaporto, da Zagabria a Belgrado si arriva in tre ore di autostrada, come prima della guerra. Questa normalizzazione di rapporti e commerci (la Slovenia, come in passato, fa la parte del leone) rende meno catastrofici gli scenari scaturiti dalle urne. Ma la prolungata e insicura instabilità che consente ai più furbi di spartirsi le briciole non può far escludere un ritorno all'inferno.

Il nazionalismo balcanico ha in parte cambiato pelle, cavalca affari e potere, è un populismo che fa leva sull'isolamento internazionale e sull'impatto traumatico dell'economia di mercato. Il girone balcanico, almeno oggi, non è così diverso da quello di fragili democrazie dell'Est europeo, dove populismi e rigurgiti nostalgici sembrano lo scotto delle diverse velocità di transizione.

A ben vedere, il populismo in varie forme non è nemmeno un'esclusiva dei Balcani se si analizza il suo successo nelle più mature democrazie europee, dall'Olanda alla Francia, dalla Svizzera all'Austria. La paura dell'altro e del vicino e la difesa di identità etniche o religiose hanno rimesso in circolo virus che hanno contaminato in misura diversa gli organismi più deboli. Ma nessuno è immune. Nei Balcani la malattia divenne un'immane tragedia dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Europa e America erano distratte dalla prima guerra del Golfo e i fantasmi dello scontro di civiltà cominciavano ad aggirarsi proprio fra il Danubio e la Neretva. Oggi sarebbe stupido, oltre che tragico, distrarsi un'altra volta.

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