Da La Stampa del 15/12/2003

Osservatorio

Democrazia islamica sogno iraniano di Ebadi e Khatami

di Aldo Rizzo

Chi ha letto su La Stampa di ieri l'intervista rilasciata dal presidente iraniano Muhammad Khatami a due giornalisti francesi avrà notato un garbato rimprovero all'avvocatessa Shirin Ebadi, per essersi presentata a Oslo alla cerimonia per la consegna del Premio Nobel per la pace priva del tradizionale velo delle donne islamiche, il famoso «ciadòr». E in effetti la signora Ebadi era vestita all'occidentale, a capo scoperto e con un filo di rossetto sulle labbra. Ma era quasi soltanto questo il tratto «trasgressivo» dell'avvocatessa, mercoledì scorso nella capitale norvegese. Per il resto, ha tenuto un discorso che, pur con dei riferimenti critici all'oligarchia teocratica di Teheran, è stato assai duro verso l'Occidente, e in particolare verso l'America di Bush, accusata di avere strumentalizzato l'11 settembre e la guerra al terrorismo per espandere la sua influenza nel mondo, soprattutto islamico, dall'Afghanistan all'Iraq. E il sottinteso era: non ci provi anche con l'Iran.

E così si capisce come il presidente Khatami, messo da parte il lieve rimprovero, si sia premurato di rassicurare Shirin Ebadi che potrà continuare indisturbata a Teheran il suo lavoro per la difesa dei diritti civili e lo sviluppo di una «democrazia islamica». In realtà, i due personaggi sono dalla stessa parte della barricata, nella lotta difficile e aspra che si svolge in Iran tra modernizzatori e conservatori. Magari, il Premio Nobel 2003 ha un po' esagerato, ha messo un eccesso di zelo, nel voler dimostrare ai leader religiosi che la sua lotta per i diritti civili e democratici non significa un cedimento all'Occidente. Khatami stesso è meno prudente, in questo senso. Ma va anche ricordato che Shirin Ebadi ha subito una condanna a 15 mesi e ha trascorso 25 giorni in una cella d'isolamento, e non vuol ripetere quell'esperienza, che il presidente riformatore non riuscì a impedire e che solo a fatica riuscì a interrompere. Questo per dire, o per ricordare, quali sono i rapporti di forza nella Repubblica Islamica.
Resta che Khatami e la Ebadi hanno una strategia comune, che si può sintetizzare in tre punti. Primo, non uscire dallo schema della democrazia islamica, ma cercare di dargli un contenuto concreto, sulla base che l'Islam non è incompatibile con la democrazia e che il Corano rettamente inteso tutela tutti i diritti individuali e di libertà. Secondo, non provocare oltre misura i «poteri forti» della teocrazia khomeinista, evitare uno scontro frontale che potrebbe rivelarsi suicida. Terzo, impedire una pesante interferenza americana, che darebbe munizioni forse decisive allo schieramento conservatore e fanatizzante, relegando i riformatori democratici nel ruolo di amici o complici dello straniero. Insomma, la lotta per la democrazia iraniana deve vedere attori solo iraniani.

Questa strategia potrà avere successo? Un libro appena pubblicato da Bruno Mondadori (Storia dell'Iran di Farian Sabahi, professore all'Università di Ginevra, di origini iraniane) aiuta a cercare una risposta mediante l'analisi delle vicende del passato. Non di quello remoto, di cui conosciamo l'importanza ma anche la distanza, bensì di quello relativamente recente, dalla fine dell'Ottocento a oggi. Con una sintesi agile, ma attenta alla complessità dei casi e delle fonti, Sabahi rifà il percorso dei tentativi di modernizzazione dell'Iran e delle resistenze conservatrici, queste ultime cementatesi già nel 1892 nell'alleanza tra il clero e i mercanti, i «mullah» e i «bazarì», contro una decisione dello Scià di allora. E' la stessa alleanza che insorse contro il filoamericano Muhammad Reza Pahlavi nel 1979, portando al potere Ruhollah Khomeini e gli integralisti sciiti. E tuttavia, dice Sabahi, nella Repubblica fondamentalista si è aperto lo spazio per elezioni «interne», ma ragionevolmente libere, a differenza da altre repubbliche o monarchie del Medio Oriente, tendenzialmente o di fatto ereditarie. E dunque il problema, la prospettiva, è sfruttare e allargare questo spazio. Cosa non facile, ma che sarebbe resa più difficile o impossibile da una ritornante invadenza americana. Speriamo che l'Amministrazione Bush se ne renda conto, specie ora, in una comprensibile euforia per la cattura di Saddam Hussein.

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