Da Il Mattino del 14/10/2003
Il passo indietro...
di Vittorio Dell'Uva
Il conflitto a «bassa intensità», che andava messo nel conto nei giorni successivi alla caduta di un regime di lunga durata, piuttosto che scemare con il trascorrere dei mesi sembra destinato a rendere endemici gli elementi di destabilizzazione. Le granate non piovono soltanto sulle truppe di occupazione. Nè le autobombe sono destinate a colpire esclusivamente gli «invasori». Si vuole che ogni forma di cooperazione con gli alleati sia assimilabile al concetto di collaborazionismo e come tale, in un Paese a forte taratura nazionalista, metta in pessima luce il poliziotto o il funzionario statale che indirettamente prende ordini da Washington. È sul nascente tessuto sociale che la guerriglia prova ad incidere con lo stillicidio quotidiano, dandosi anche da fare per evitare che le tre grandi anime del Paese possano fondersi. La strategia della tensione, attraverso azioni mirate nei quartieri popolari e nella città sante, tiene vivi gli elementi di conflittualità tra la maggioranza sciita ed i sunniti destinati alla futura lotta di potere cui non saranno estranei i curdi della regione del nord ricche di petrolio.
Qualche errore di troppo degli Stati Uniti non poco aiuta la campagna di arruolamento della guerriglia. Le fasi della ricostruzione, quale che sia l’accelerazione che Bremer, il proconsole di Bush sta provando a dare, non hanno la velocità da alto impatto che avrebbe potuto bruciare le ragioni del dissenso offrendo alla massa prospettive a breve. L’eccesso di «disinvoltura» nelle operazioni di polizia militare dell’esercito degli Stati Uniti, prigioniero delle proprie paure, promuovono l’intolleranza verso l’occupante. Fare irruzione in una moschea, come accaduto ieri a Falluja, per arrestare un imam «terrorista», incrementa lo share di quanti si pongono come paladini dell’Islam di fronte alla arroganza dei marines. Nè è irrilevante la mancata cattura di Saddam le cui ore, da troppi mesi, vengono definite «contate». Washington ha cercato di acquistarlo sul mercato del tradimento, offrendo fino a venticinque milioni di dollari, ma non è riuscita a sfondare il muro della omertà. Le informazioni sul raìs vivo e vegeto a Tikrit nonchè insediato nella cabina di regia della resistenza, rilanciate dagli stessi «cacciatori» americani, dovrebbero dare l’impressione di un blitz risolutorio imminente, ma molto appannano, agli occhi degli iracheni, il mito della invincibilità degli Stati Uniti.
Fino alle mosse davvero vincenti, che portino fuori dalla fase stagnante del dopoguerra, l’Iraq sembra destinato quanto meno a restare una palude per gli americani. E non solo per loro. Come ben sanno le forze militari operanti sul terreno. La richiesta sul prolungamento della missione del contingente italiano che si attende dagli Usa, non coglierà certamente di sorpresa i nostri militari a Nassirya. I lavori in corso nella base «White horse», dove si è appena insediata la «Sassari», da tempo tengono conto delle esigenze da affrontare fino a primavera inoltrata.
Qualche errore di troppo degli Stati Uniti non poco aiuta la campagna di arruolamento della guerriglia. Le fasi della ricostruzione, quale che sia l’accelerazione che Bremer, il proconsole di Bush sta provando a dare, non hanno la velocità da alto impatto che avrebbe potuto bruciare le ragioni del dissenso offrendo alla massa prospettive a breve. L’eccesso di «disinvoltura» nelle operazioni di polizia militare dell’esercito degli Stati Uniti, prigioniero delle proprie paure, promuovono l’intolleranza verso l’occupante. Fare irruzione in una moschea, come accaduto ieri a Falluja, per arrestare un imam «terrorista», incrementa lo share di quanti si pongono come paladini dell’Islam di fronte alla arroganza dei marines. Nè è irrilevante la mancata cattura di Saddam le cui ore, da troppi mesi, vengono definite «contate». Washington ha cercato di acquistarlo sul mercato del tradimento, offrendo fino a venticinque milioni di dollari, ma non è riuscita a sfondare il muro della omertà. Le informazioni sul raìs vivo e vegeto a Tikrit nonchè insediato nella cabina di regia della resistenza, rilanciate dagli stessi «cacciatori» americani, dovrebbero dare l’impressione di un blitz risolutorio imminente, ma molto appannano, agli occhi degli iracheni, il mito della invincibilità degli Stati Uniti.
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