Da Corriere della Sera del 24/11/2003

A Tikrit, con le forze Usa «E’ l’ora di essere letali»

La Quarta Divisione circonda la roccaforte dei saddamisti «La nuova strategia? Fargli capire che non hanno scampo»

di Lorenzo Cremonesi

TIKRIT - I due carri armati americani fermi nel mezzo della carreggiata ruotano lentamente le torrette, puntano con altrettanta lentezza i loro cannoni da 120 millimetri verso il mini-bus e la piccola utilitaria che fuggono in una nuvola di polvere tra i campi aperti. Poi, improvvisamente, sparano. Una fiammata. E il botto, secco, violento, che terrorizza la folla di automobilisti, donne, bambini, anziani, assiepata ai posti di blocco. I veicoli in fuga, saranno a un chilometro di distanza, saltano in aria tra nuvole di fuoco, sventrati nel mezzo. Per gli otto occupanti non c'è scampo, neppure il tempo per un grido, un lamento.

Così l’altra sera sulla provinciale tra Bagdad e Tikrit (a 180 chilometri dalla capitale) abbiamo assistito da pochi metri di distanza a un tipico raid nel nuovo stile dell'operazione «Ivy Cyclone», Ciclone d’Edera: un nome curiosamente gentile per una strategia decisamente dura, brutale, determinata. Una strategia (chiamata anche «Iron Hammer», Martello di Ferro) che è in atto da circa una settimana. Come ha detto ai suoi uomini il generale Ray Odierno, comandante della Quarta Divisione di fanteria di stanza a Tikrit: «Quando i nemici vi affrontano, voglio che gli facciate capire una cosa sola: che saranno uccisi o catturati. Il nostro intento è questo: essere letali».

In questo caso i morti sono una decina, due di loro giacciono sulla strada, verranno portati via insanguinati sui tetti delle jeep militari, come selvaggina dopo una battuta di caccia. «Sono banditi», spiega un abitante del posto, raccontando come gli americani hanno aperto il fuoco senza preavviso.

«Stavano rapinando tre camion che trasportavano merci destinate alle basi americane di Bagdad. E un paio di loro stavano anche rubando le componenti di piombo dai pali delle linee elettriche civili. I soldati non hanno concesso loro neppure il tempo di alzare le mani». Attaccare per primi, sempre e comunque, impedire che la malavita locale contribuisca alla destabilizzazione voluta dalla guerriglia. Soprattutto compiere azioni dimostrative, con tutte le armi tradizionali della guerra: missili, cacciabombardieri, artiglieria pesante, unità corazzate. E' la risposta del Pentagono alle azioni degli oltranzisti dell'ex regime, che assieme agli infiltrati dell'Internazionale Islamica provenienti dall'estero hanno alzato il tiro con una strategia sempre più sofisticata.

«Abbiamo lanciato Ciclone d’Edera dopo la perdita di sei uomini nell'abbattimento di un elicottero avenuto qui a Tikrit il 6 novembre. E da allora la nostra logica è far capire ai terroristi e ai loro alleati che non hanno alcuna possibilità di successo, perché non daremo loro scampo. Li colpiremo senza sosta, intensificheremo i blitz preventivi», spiega il colonnello James Hickey, comandante della Prima Brigata «Raider», inquadrata nella Quarta Divisione arrivata a Tikrit sin dai primi giorni di aprile.

Hickey siede nella sala operativa della base, posta nella villa che una volta apparteneva all'ex ministro della Difesa di Saddam Hussein, Adnan Karalla. Un fedelissimo della dittatura, lo si vede dai saloni immensi e rivestiti di marmo italiano di questa casa-castello con il parco degno di un re. Sua figlia Sajidah è tra l'altro la prima moglie di Saddam (la madre di Uday e Qusay e delle loro tre sorelle). Davanti all'ufficiale Usa sono posti tre schermi giganteschi, dove segue in tempo reale gli spostamenti delle sue pattuglie sul territorio. Le forze Usa sono disegnate in blu, le aree di combattimento con le mosse dei «sospetti terroristi» in rosso. «In questo momento le nostre artiglierie stanno bombardando alcune zone a est del Tigri, dove nel passato sono stati tirati colpi di mortaio. Sembrerà uno spreco. Ma negli ultimi tempi abbiamo scoperto che i nostri colpi innescavano le esplosioni di depositi di munizioni nascosti dal nemico», aggiunge Hickey. Sul secondo schermo arrivano di continuo informazioni dal campo, grazie anche al sistema capillare di radar nella regione. All'improvviso ne giunge una urgente: «Le nostre fonti segnalano che tre iracheni, Qusay, Marwan e Munhir, stanno uscendo dai loro covi con missili terra-aria Sa-7». Con questi missili gli elicotteri americani sono a rischio. Da tempo gli informatori locali fanno sapere che i tre sono ex agenti dei servizi speciali della Guardia Repubblicana, militanti di punta della strategia del terrore a Tikrit.

Nel buio il colonnello guida una pattuglia composta da cinque gipponi. Fari spenti, vietato fumare, ogni parola deve essere un bisbiglio. Tutti i soldati indossano visori notturni, solo le stelle rischiarano appena questa notte senza luna. Si arriva presso le abitazioni sparse di un quartiere che gli americani hanno ribattezzato «why not», appena a sud di Aoja, il villaggio natale di Saddam. Il coprifuoco costringe tutti in casa. Qualche cane abbaia lontano. Ma non si trova nulla. Dei tre neppure l'ombra. In lontananza si vedono i bagliori di un bombardamento di F15 americani.

«Il fatto è che i terroristi non rappresentano in alcun modo una sfida militare. Anzi, sempre di più scappano, evitano di ingaggiare scontri a fuoco. In luglio nel mio settore avevo subito 76 attacchi diretti, con 36 morti o feriti tra i soldati, per lo più colpiti da proiettili di armi leggere. A ottobre gli attacchi sono stati 140, ma un’ottantina sono state esplosioni di bombe artigianali. Dal primo novembre sono 90, ma 49 di loro sono bombe e mine. Questo per dire che abbiamo osservato le debolezze del nemico. Non sa come rimpiazzare le proprie perdite. Non ha alcun addestramento specifico, ha paura. Dunque cerca di colpire da lontano», spiega il colonnello sulla via della base verso mezzanotte. Il freddo si è fatto pungente. E le sentinelle sembrano tranquille, più preoccupate a tenersi calde che a fare la guardia.

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