Da Il Mattino del 07/10/2003
Originale su http://ilmattino.caltanet.it/hermes/20031007/NAZIONALE/11/DETS.htm

L’anno zero di Bassora tra odio e macerie

di Vittorio Dell'Uva

Nemmeno nei giorni del coprifuoco e della guerra Bassora si faceva, dopo il tramonto, tanto deserta. Nella notte la abitano i ladri ed i cascami del regime costretti a muoversi soltanto negli angoli bui. Per gli uni e per gli altri ogni automobilista o passante diventa potenziale obiettivo. Colpi secchi di fucili automatici raccontano che da qualche parte, probabilmente, si è consumato un delitto. Se l’acqua manca di colpo in una o più case c’è solo da andare a scoprire quale dei tubi di piombo è stato rubato. Il dopoguerra è diventato stillicidio quotidiano ed infinito in ogni quartiere, anche se non si corre più il rischio di finire sepolti nelle segrete del Mukhabarat, l’onnipotente polizia segreta tanto cara al raìs.

Bassora si è sottratta all’ossequio di fronte alla milizia e ai kapò del partito Baath, ma nemmeno è quella che ha sognato di essere quando ha visto in catene Al Sadun, proconsole di Saddam Hussein ed ultimo dei suoi vecchi padroni.

La furia popolare ha liberato il lungo fiume dalle 46 statue di soldati che indicavano con un braccio l’Iran e la frontiera della gloria irachena. Non troppo oltre si è spinta, avendo cancellato i più visibili simboli. «La città di oggi non è molto diversa da quella di ieri. Sembra rimasta immobile dopo la guerra. Non un solo problema è stato risolto. L’attraversa un’indistinta paura. Trenta anni di terrore lasciano il segno», spiega Andreas Kruesi, responsabile della Croce Rossa Internazionale per il sud dell’Iraq.

I monumenti alla paralisi sono sorti, in fretta, appena oltre l’angolo di Al Saadi, uno dei grandi viali che conducono in centro. L’autorità provvisoria, il gran consiglio di una cinquantina di membri presieduta da Hillary Synnot, già ambasciatore britannico in Pakistan, si è chiusa letteralmente in un bunker impermeabile agli iracheni e alle loro preghiere. Ma da cui escono, con frequenza, molti sconfitti. In poche settimane il settore della sanità ha visto avvicendarsi, per incompetenza o per altro, cinque direttori generali con fragile spina dorsale. Già due volte, da giugno, è cambiato il provveditore agli Studi. «Per far funzionare la scuola, non basta che gli stipendi di sei dollari siano stati moltiplicati per trenta. Né qualche aula linda può dare l’impulso che serve alla didattica. Vanno cambiati la mentalità e i libri di storia», dice la signora Farida, combattiva insegnante di un istituto del centro.

All’interno delle istituzioni sembra dominante la linea che induce a non esporsi troppo alla luce dell’alba della nuova stagione, e soprattutto a guardarsi le spalle. La dittatura ha abituato a non avere troppo coraggio. Le storie restano intatte. Se anche molte divise verdi della milizia baahatista hanno perso colore, i nuovi nazionalisti non apprezzano il collaborazionismo con le truppe di occupazione. La sindrome della sicurezza personale si è trasformata nel male oscuro dei nuovi notabili. «Debole e simbolico» è definito da Ayad Bakii, dirigente della banca Rashid, il ruolo del nuovo «Consiglio comunale» che ha appena trovato nel moderato Abdellatif il suo quarto «gestore» destinato a durare chissà quanto.

Molto a Bassora è virtuale. L’americana Bechtel Corporation, scelta da Bush come General Contractor, e la Rti, destinatarie di commesse miliardarie per la ricostruzione, non hanno avviato che qualche modesto cantiere. Zoppicanti sembrerebbero alcuni progetti pilota. L’officina dei «grandi lavori» che può dare molta occupazione non è stata ancora davvero aperta. E non sono certamente i soldi che mancano. «I nostri dirigenti hanno paura - ammette a mezza bocca un capo cantiere della Rti - la stabilità da noi tarda a venire». A dare certezze non bastano i poliziotti, con le camicie immacolate appollaiati sulle garritte in cemento dipinte di azzurro, o i muri di cinta che mattone dopo mattone si fanno sempre più alti. Né mette al riparo dal possibile ed incombente conflitto sociale l’emigrazione di massa dei fedelissimi del regime, andati a curarsi la nostalgia a Falluja, nel Nord di un Iraq dove ancora si sogna Saddam. Bassora non conosce la fame che affligge Calcutta, ma il 90 per cento della sua popolazione ancora dipende dal programma «Oil for food» che fino a novembre garantirà a ogni famiglia olio, riso e farina. Non è dall’assistenzialismo che può derivare il «circolo virtuoso» da molti ipotizzato.

Piaghe che sei mesi dopo la fine del conflitto nessuno ha preso a curare, certamente non mancano. Il segretario generale dell’Onu Kofi Annan potrebbe ancora lanciare, come fece alla fine di marzo quando piovevano le bombe, l’appello in difesa di 300mila bambini minacciati dalla cattiva nutrizione e da malattie infettive, dovute all’inquinamento dell’acqua dello Shatt el Arab e del fiume Bassora. «La gastrointerite è un nemico che sembra invincibile» ricorda, alzando le braccia in segno di resa, il dottor Moahmed Jebar dell’ospedale pediatrico. Le pompe e le condotte di un sistema idrico complesso, che dovrebbe garantire il giusto grado di salinità ed il regolare approvvigionamento, vengono regolarmente rimosse dai ladri per affluire sul mercato nero dei rottami di ferro. Molti laboratori degli ospedali, che per la grande razzia post bellica furono presi d’assalto, sono ancora sguarniti. Alla generosità dei donatori kuwaitiani, che in Iraq si fa fatica a considerare amici sinceri, bisogna affidarsi per le bombole di ossigeno. Non c’è notte in cui qualcuno con l’aiuto di un camion ed un gancio non arpioni e porti via i cavi di rame di una rete elettrica, che garantisce alla città appena il 70 per cento dell’energia di cui avrebbe bisogno. Così come accadeva prima che Bush scatenasse la guerra.

La nuova «House» della giustizia, a pochi passi dei ruderi dell’edificio della Security di Saddam sventrato dalle bombe, non impensierisce i piccoli boss della crescente criminalità. Molti potenziali sciuscià danno loro una mano. Il contingente britannico usa i bastoni se c’è da disperdere le manifestazioni di quanti invocano ancora salari, ma tende a proteggere soprattutto i beni preziosi come gli uffici della nuova nomenclatura. Le file alle pompe di benzina, assediate da piccoli contrabbandieri, posson durare fino a sei ore, come nei giorni dell’avanzata anglo-americana. Meglio scortare armi in pugno ogni autocisterna della South Oil Company che si muove lungo le strade.

Il clero sciita, che può regolare gli umori con fiammeggianti sermoni, sembra aver preferito la strategia dell’attesa senza rallentare il suo passo che si è fatto soltanto felpato. «La caduta di Saddam ci ha reso felici, ma l’occupazione del nostro Paese non si può accettare a lungo. Non so quanto possiamo aspettare» dice, sibillino nelle parole e negli occhi, l’Imam di una minuscola moschea che si affaccia su un melmoso canale. Al momento, la battaglia dei simboli è già stata un trionfo sulla via della «evangelizzazione» islamica apprezzata in Iran: il volto accigliato dell’Imam Al Sadr, che il regime fece assassinare nel 1999 non lontano dalla città santa di Najaf, è la nuova icona che ha sostituito l’immagine del raìs sulle strade e le piazze. Più diffuso si fa il look dell’islam, che rende pressoché tutte uguali le donne con il capo coperto dal velo per fede o per paura. L’opzione religiosa ha impedito che le porte di un cinema potessero dare, aprendosi, accesso ad una delle vie del peccato. Carbonari dell’immagine vendono sotto banco videocassette «proibite». «Attenti a quel che guardate» è il monito che raggiunge chi acquista, a 135 dollari l’una, le grandi antenne che catturano nell’etere i programmi tivù senza sapere se siano o meno licenziosi.

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