Da La Stampa del 10/11/2003
La strategia dietro l'attacco dei kamikaze
La guerra dei «veri credenti» per cacciare i principi corrotti
Obbiettivo del terrore è mettere in crisi gli Stati Uniti ma anche fare tornare i tempi d'oro di Salah al-Din e della Mezzaluna orgogliosa
di Mimmo Candito
Mai come oggi l'Arabia Saudita avverte che la propria storia - la storia superba, orgogliosa, spesso sprezzante, dei 5000 capi tribù trasformati in principi regnanti, del mare di petrolio che giace sotto i loro piedi, della ricchezza senza fine che domina banche e finanziarie fin dentro Wall Street, del controllo ieratico sul miliardo di fedeli di Allah dall'Atlantico al Pacifico - mai quanto oggi questa storia pare arrivare al suo ultimo capitolo. Ci son voluti i morti di ieri - forse 5, o 15, o forse anche 50, e comunque un autentico massacro - ci son voluti questi poveri morti per tirar via la cortina mediatica dietro la quale si celano le urgenze angosciose e contagianti della «Guerra al terrorismo», e far venire spietatamente alla luce, al suo posto, la strategia che sta sotto gli attacchi portati dai kamikaze in ogni latitudine: sì, certo, mettere in crisi l'America, e la sua egemonia politica, economica, culturale, sul mondo oggi, ma intanto - anzitutto - impossessarsi del serbatoio energetico dell'Arabia Saudita, liberandolo dalle «parentele» corrotte, blasfeme, con le capitali del mondo degl'infedeli, e far di nuovo della terra di Maometto il faro del tempo nuovo.
Dopo l'attentato dell'11 settembre, il progetto che sta dietro il fondamentalismo islamico più radicale era andato intrecciandosi con le ragioni politiche della «Strategia della sicurezza nazionale», enunciata l'anno scorso dal presidente Bush; quell'intreccio ha finito per modificarne la lettura, ne ha cambiato la forza dell'azione politica e ha spostato il fuoco dell'obiettivo, orientandolo su Washington come se Al Qaeda fosse una nuova Spectre buona per gli 007 della Cia. Ma come minacciava e spiegava Osama bin Laden nel suo primo videoclip, già al tempo ormai lontano della guerra in Afghanistan, la battaglia dell'«esercito dei credenti» è fatta soprattutto per liberare La Mecca dai principi e dagli sceicchi che oggi la dominano. L'instaurazione a Riad d'un potere che pratichi, e rispetti rigorosamente, i principi della shari'a, troncando ogni «liaison dangereuse» con l'Occidente, non soltanto riporterebbe in forma incontaminata la legge del Corano dentro le terre dove il Profeta ebbe la rivelazione di Allah, ma anche restituirebbe ai discendenti di Maometto - sostiene Bin Laden - la forza ch'essi ebbero quando dominarono il mondo. E il petrolio verrebbe offerto a venti volte il prezzo che oggi i «traditori» di Riad impongono al cartello dell'Opec.
L'Arabia Saudita è da sempre (da un «sempre» che nasce quando gli Usa ereditano dal vecchio, ormai ansimante, impero britannico la guida del mondo, con il ruolo dominante guadagnato nella Seconda guerra mondiale), da sempre è il pilastro fondamentale delle politiche energetiche americane. Quando, a febbraio del '45, in un tempo in cui ormai il Reich hitleriano stava crollando sotto la spinta delle armate statunitensi e Jalta disegnava la spartizione del pianeta, il presidente Roosevelt incontrò sul ponte d'una nave di guerra il vecchio re Ibn Saud, con la sua corte di grassi sceicchi ed emiri sussiegosi, l'incontro in quel tiepido inverno mediorientale fu breve, molto formale, segnato dal rispetto che il presidente di quello che si stava manifestando come il nuovo padrone del mondo volle cerimoniosamente rendere pubblico al signore dell'oro nero. Le foto ufficiali furono poche, giusto quanto bastava per immortalare una tappa della nuova politica estera americana, ma la firma di alcune carte diplomatiche e la stretta di mano che ne seguì sigillarono un patto che garantiva al vecchio re una protezione senza limiti, in cambio d'una apertura - anch'essa però senza limiti - ai petrolieri a stelle e strisce. Nessuno avrebbe mai osato minacciare i discendenti del re e il loro controllo sulle terre del Profeta, ma anche nessuno avrebbe mai messo il naso dentro le faccende dei pozzi di petrolio.
In tutti questi anni, quel patto in realtà non è mai venuto meno, fino però a quel dannato 11 settembre, quando il velo delle ipocrisie si è squarciato ed è balzato alla luce il verminaio che intanto era germinato dentro i saloni e nei forzieri dei discendenti di re Saud: ipocrisie e larve velenose che s'erano intrecciate in un confuso progetto politico, dove la difesa degl'interessi dell'Occidente, e la guerra al comunismo ateo, erano però piegate alle tentazioni del fanatismo wahabita e alle sue ambizioni d'esportazione universale. Soltanto allora, soltanto dietro i 15 passaporti sauditi dei 19 uomini di Al Qaeda che avevano lanciato la minaccia al mondo in quel mattino di settembre del 2001, gli Stati Uniti hanno capito che l'Arabia Saudita non era più l'alleato sicuro e garantito d'ogni politica possibile nel Medio Oriente, e che - anzi - era ormai diventata una pericolosissima centrale del terrorismo islamista, inaffidabile per le troppe commistioni che ormai s'erano saldate tra le ricchezze del petrolio e il messianismo della predicazione religiosa.
I principi e gli sceicchi di Riad, angosciati dall'abbandono (ancora non formale, ma comunque ormai di fatto) del loro vecchio alleato, hanno tentato di riacchiappare un legame che si sfilacciava, e hanno messo finalmente in campo una politica di stretto controllo sui flussi finanziari, troncando il fiume di denaro che intanto finiva nelle case del fondamentalismo islamico sotto la giustificazione formale dell'aiuto alle associazioni umanitarie. La polizia ha anche messo da parte le complicità e le connivenze sopportate con i gruppi fondamentalisti, e negli ultimi mesi è riuscita ad annientare alcune cellule di Al Qaeda (o comunque di fiancheggiatori della rete di Osama bin Laden). Un migliaio di «sospettati» sono in carcere, alcune decine di (presunti) terroristi sono stati ammazzati in (dichiarati) scontri a fuoco.
La repressione si è fatta dura, le bombe e gli attentati che Al Qaeda in questi mesi ha portato fin dentro Riad e Jeddah sono la risposta di Al Qaeda. I morti dell'altro ieri riportano, dunque, la «guerra al terrorismo» nel suo primo campo di battaglia, nel cuore della penisola arabica. Gli Stati Uniti restano un bersaglio fondamentale di questa battaglia - perché simbolicamente rappresentano le ragioni del Male, agli occhi del mondo dei «credenti» - ma è nei palazzi dei figli di Ibn Saud che sta la posta in gioco. E la posta è il petrolio a 144 dollari al barile, come minacciava Bin Laden: se mai avverrà, saranno allora tornati i tempi d'oro di Salah al-Din e della Mezzaluna orgogliosa che dominava nel nome di Allah il mondo degli infedeli.
Dopo l'attentato dell'11 settembre, il progetto che sta dietro il fondamentalismo islamico più radicale era andato intrecciandosi con le ragioni politiche della «Strategia della sicurezza nazionale», enunciata l'anno scorso dal presidente Bush; quell'intreccio ha finito per modificarne la lettura, ne ha cambiato la forza dell'azione politica e ha spostato il fuoco dell'obiettivo, orientandolo su Washington come se Al Qaeda fosse una nuova Spectre buona per gli 007 della Cia. Ma come minacciava e spiegava Osama bin Laden nel suo primo videoclip, già al tempo ormai lontano della guerra in Afghanistan, la battaglia dell'«esercito dei credenti» è fatta soprattutto per liberare La Mecca dai principi e dagli sceicchi che oggi la dominano. L'instaurazione a Riad d'un potere che pratichi, e rispetti rigorosamente, i principi della shari'a, troncando ogni «liaison dangereuse» con l'Occidente, non soltanto riporterebbe in forma incontaminata la legge del Corano dentro le terre dove il Profeta ebbe la rivelazione di Allah, ma anche restituirebbe ai discendenti di Maometto - sostiene Bin Laden - la forza ch'essi ebbero quando dominarono il mondo. E il petrolio verrebbe offerto a venti volte il prezzo che oggi i «traditori» di Riad impongono al cartello dell'Opec.
L'Arabia Saudita è da sempre (da un «sempre» che nasce quando gli Usa ereditano dal vecchio, ormai ansimante, impero britannico la guida del mondo, con il ruolo dominante guadagnato nella Seconda guerra mondiale), da sempre è il pilastro fondamentale delle politiche energetiche americane. Quando, a febbraio del '45, in un tempo in cui ormai il Reich hitleriano stava crollando sotto la spinta delle armate statunitensi e Jalta disegnava la spartizione del pianeta, il presidente Roosevelt incontrò sul ponte d'una nave di guerra il vecchio re Ibn Saud, con la sua corte di grassi sceicchi ed emiri sussiegosi, l'incontro in quel tiepido inverno mediorientale fu breve, molto formale, segnato dal rispetto che il presidente di quello che si stava manifestando come il nuovo padrone del mondo volle cerimoniosamente rendere pubblico al signore dell'oro nero. Le foto ufficiali furono poche, giusto quanto bastava per immortalare una tappa della nuova politica estera americana, ma la firma di alcune carte diplomatiche e la stretta di mano che ne seguì sigillarono un patto che garantiva al vecchio re una protezione senza limiti, in cambio d'una apertura - anch'essa però senza limiti - ai petrolieri a stelle e strisce. Nessuno avrebbe mai osato minacciare i discendenti del re e il loro controllo sulle terre del Profeta, ma anche nessuno avrebbe mai messo il naso dentro le faccende dei pozzi di petrolio.
In tutti questi anni, quel patto in realtà non è mai venuto meno, fino però a quel dannato 11 settembre, quando il velo delle ipocrisie si è squarciato ed è balzato alla luce il verminaio che intanto era germinato dentro i saloni e nei forzieri dei discendenti di re Saud: ipocrisie e larve velenose che s'erano intrecciate in un confuso progetto politico, dove la difesa degl'interessi dell'Occidente, e la guerra al comunismo ateo, erano però piegate alle tentazioni del fanatismo wahabita e alle sue ambizioni d'esportazione universale. Soltanto allora, soltanto dietro i 15 passaporti sauditi dei 19 uomini di Al Qaeda che avevano lanciato la minaccia al mondo in quel mattino di settembre del 2001, gli Stati Uniti hanno capito che l'Arabia Saudita non era più l'alleato sicuro e garantito d'ogni politica possibile nel Medio Oriente, e che - anzi - era ormai diventata una pericolosissima centrale del terrorismo islamista, inaffidabile per le troppe commistioni che ormai s'erano saldate tra le ricchezze del petrolio e il messianismo della predicazione religiosa.
I principi e gli sceicchi di Riad, angosciati dall'abbandono (ancora non formale, ma comunque ormai di fatto) del loro vecchio alleato, hanno tentato di riacchiappare un legame che si sfilacciava, e hanno messo finalmente in campo una politica di stretto controllo sui flussi finanziari, troncando il fiume di denaro che intanto finiva nelle case del fondamentalismo islamico sotto la giustificazione formale dell'aiuto alle associazioni umanitarie. La polizia ha anche messo da parte le complicità e le connivenze sopportate con i gruppi fondamentalisti, e negli ultimi mesi è riuscita ad annientare alcune cellule di Al Qaeda (o comunque di fiancheggiatori della rete di Osama bin Laden). Un migliaio di «sospettati» sono in carcere, alcune decine di (presunti) terroristi sono stati ammazzati in (dichiarati) scontri a fuoco.
La repressione si è fatta dura, le bombe e gli attentati che Al Qaeda in questi mesi ha portato fin dentro Riad e Jeddah sono la risposta di Al Qaeda. I morti dell'altro ieri riportano, dunque, la «guerra al terrorismo» nel suo primo campo di battaglia, nel cuore della penisola arabica. Gli Stati Uniti restano un bersaglio fondamentale di questa battaglia - perché simbolicamente rappresentano le ragioni del Male, agli occhi del mondo dei «credenti» - ma è nei palazzi dei figli di Ibn Saud che sta la posta in gioco. E la posta è il petrolio a 144 dollari al barile, come minacciava Bin Laden: se mai avverrà, saranno allora tornati i tempi d'oro di Salah al-Din e della Mezzaluna orgogliosa che dominava nel nome di Allah il mondo degli infedeli.
Sullo stesso argomento
Articoli in archivio
di Pietro Veronese su La Repubblica del 19/06/2004
di Magdi Allam su Corriere della Sera del 19/06/2004
di Enrico Franceschini su La Repubblica del 01/06/2004