Da Corriere della Sera del 03/10/2003

La bolla di Bush

di Ennio Caretto

Le istituzioni vacillano sotto il peso dei conflitti di interesse. I due templi del potere americano, la Borsa e la Casa Bianca, vengono inquisiti: nell'una, il presidente Richard Grasso è costretto a dimettersi per avere curato i propri guadagni invece d'imporre la trasparenza dei mercati, e nell'altra rischiano di cadere una o più teste eccellenti per un regolamento di conti con la Cia sulla guerra in Iraq. Indignata, la maggioranza del Paese reagisce chiedendo drastiche riforme. E nelle campagne elettorali premia gli «outsiders», ossia i critici dell’establishment, dal generale a riposo Wesley Clark, il vincitore della guerra del Kosovo, a Howard Dean, l'ex governatore del Vermont, cioè i candidati democratici di testa; premia persino l'attore Arnold Schwarzenegger, un repubblicano, in California. E' l'autunno dello scontento. Anticipato dall'operazione mani pulite in Borsa di Elliott Spitzer, il procuratore di New York, e dal referendum sulla rimozione del governatore californiano Gray Davis, il risentimento popolare minaccia di alterare gli equilibri politici esistenti. Oltre agli scandali, il pubblico rinfaccia anche la guerra dell'Iraq, che sembra non finire, la disoccupazione, che non accenna a scendere, e i blackout politici che riguardano non solo l'Amministrazione, ma anche il Congresso. «A torto o a ragione» osserva David Broder sul Washington Post «la gente lamenta che i partiti non affrontino più i suoi problemi». L'umore americano è analogo a quello del '92, che un anno dopo la vittoria su Saddam, costò la presidenza a Bush padre, un leader peraltro rispettato, e a quello del '94, che due anni dopo l'ingresso alla Casa Bianca di Bill Clinton, il profeta del rinnovamento, costò il Parlamento ai democratici. Per ora lo scontento punisce soprattutto l'opposizione. Alle primarie democratiche, i suoi leader storici, l'ex presidente della Camera Dick Gephardt, il senatore Joe Lieberman, che fu compagno di corsa di Al Gore alle sfortunate elezioni del 2000, l'altro senatore John Kerry, un kennediano, eroe della guerra del Vietnam, sono dati perdenti nei sondaggi. L'elettorato rimprovera loro di avere appoggiato la guerra dell'Iraq e le inique riduzioni delle tasse di Bush, e di non essersi battuti per la riforma sanitaria e il pieno impiego. Guarda a essi come agli uomini di ieri e ai due volti nuovi, Dean e Clark, come a quelli di domani. Dean perché propone il disimpegno dall'Iraq e ha un programma populista moderato, contro gli abusi dei grandi interessi finanziari e le interferenze delle lobbies, ma guardando al pareggio del bilancio dello Stato. Clark perché garantisce la sicurezza nazionale come e forse più di Bush, ma contesta la guerra preventiva e prospetta il recupero dell'Onu e della Nato. Il vento della rivolta, che impedisce ogni previsione elettorale, non risparmia certo Bush, che arrivato a Washington da «outsider» ne incarna adesso l'establishment. Esentato dalla verifica delle primarie, il presidente deve sottostare solo a quella dei sondaggi. Che lo trovano al minimo della popolarità, e lo inducono a stare sulla difensiva. Da mesi Bush, un presidente d'attacco, non assume più importanti iniziative in politica interna né estera, sembra anzi rassegnato ad attendere una difficile schiarita sia in economia sia in Iraq. Il suo contatto con l'America, il suo punto forte, è mediato da una Casa Bianca che lo tiene chiuso in una bolla, e gli fa incontrare solo il pubblico amico, militari, imprenditori, antiabortisti. Per il presidente è un rischio. Come sempre capita quando l'opposizione è carente di idee guida e leader carismatici, le elezioni del novembre 2004 saranno innanzitutto un referendum sulla sua amministrazione. Bush ha un anno per contenere o placare lo scontento americano. Se non ce la farà, l'America sceglierà il cambiamento, a meno che non venga paralizzata dalla paura di un salto al buio.

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