Da Corriere della Sera del 03/11/2003

Arabi contro

di Magdi Allam

È stato il vero battesimo di sangue della Muqawama, la Resistenza, in Iraq. Un sostantivo che sottintende una dimensione esistenziale altamente positiva ed esercita un fascino irresistibile sui giovani alla ricerca di un sistema di valori che li appaghi in questa e nell'altra vita. Fino a ieri la Muqawama si riferiva quasi esclusivamente ai fedayn palestinesi in lotta contro Israele. Ora la si intende prevalentemente riferita ai combattenti iracheni che si battono contro l'Ihtilal, l'occupazione, come lì viene unanimemente definita la presenza militare americana. A fare da cassa di risonanza alla sacralizzazione della Muqawama irachena è la tv araba Al Jazira . Il suo corrispondente da Bagdad ha spiegato con toni gaudenti che l’abbattimento dell'elicottero CH-47 Chinook rappresenta un «salto qualitativo della Resistenza».

Perché, ha precisato, «ora è in grado di attaccare le forze di occupazione non solo a terra ma anche in cielo». Visto dall’altra parte, il «Giorno dei morti» dei soldati americani in Iraq, è la «Madre delle feste».

La qualifica di Al Muqawama attribuita agli attentati in Iraq è ormai patrimonio comune dei mezzi di informazione arabi. Che cela un radicato e viscerale antiamericanismo. Perfino i ministri degli Esteri dei sei Paesi confinanti con l’Iraq, a cui si è aggiunto l’Egitto, pur condannando ieri a Damasco gli «attentati terroristici contro i civili, le istituzioni umanitarie e religiose, le ambasciate e le organizzazioni internazionali», non hanno fatto riferimento agli attacchi contro gli americani. Probabilmente anche per loro non si tratta di attentati terroristici bensì di legittime azioni di resistenza.

Il problema vero è proprio questo: l’antiamericanismo ha finito per affermarsi come il più solido e convincente collante ideologico tra un ampio arco di forze originariamente diverse se non addirittura ostili. Come è principalmente il caso del matrimonio contronatura tra la più potente e pericolosa rete del terrorismo islamico globalizzato e ciò che resta delle milizie del vecchio regime laico del Baas iracheno. Un sodalizio preannunciato a metà dello scorso febbraio dallo stesso Bin Laden. Questi giustificò l’alleanza tattica con Saddam, da lui stesso tacciato di essere un miscredente, come la scelta del male minore per fronteggiare «la nuova crociata dell’America contro la Nazione islamica». In realtà quando Bin Laden fece quella dichiarazione, centinaia di suoi militanti erano già arrivati in Iraq con un biglietto di sola andata. La loro massima aspirazione è di sacrificare la propria vita in quella che considerano una Jihad, una Guerra santa, contro il capofila dei nemici dell’Islam. Da allora il flusso dei mujaedin in Iraq, direttamente arruolati o simpatizzanti di Al Qaeda, non è mai cessato. Anche in partenza dal nostro Paese come hanno confermato le recenti indagini sull’attività delle moschee di Cremona e Brescia.

L’Iraq si è così trasformato nel fronte di «prima linea» del più vasto schieramento di forze terroristiche, rivoluzionarie, eversive, nazionaliste di differenti estrazioni ideologiche, compattato dall’antiamericanismo. In questo micidiale sbarramento di fuoco le morti ormai quotidiane dei soldati americani sono in qualche modo preannunciate. Né c’è da meravigliarsi più di tanto in un Paese dove i giovani si esibiscono per le strade impugnando i lanciarazzi Katiuscia e i mitra Kalashnikov quasi fossero una borsa da passeggio. Uno degli ultimi atti di Saddam prima della caduta del suo regime fu di inondare la gente con un immenso quantitativo di armi da guerra. Va da sé che il disarmo della popolazione è la priorità per assicurare l’ordine interno. Obiettivo irraggiungibile se non in presenza di un adeguato consenso nei confronti dell’autorità pubblica e di un apparato di sicurezza sufficiente a rastrellare le armi e a reprimere i fuorilegge. Attualmente in Iraq non esiste né l’uno né l’altro.

E’ un dato di fatto che nel mondo arabo il discredito nei confronti della superpotenza mondiale è forte, ampio e contagioso. A Bagdad si è arrivati al punto in cui i poliziotti hanno paura di andare in giro in divisa perché rischiano di essere aggrediti dalla gente in quanto «collaborazionisti». Il sodalizio con gli americani mette in difficoltà anche coloro che sono loro grati per averli liberati dal sanguinario regime di Saddam, ed è la quasi totalità della popolazione, e coloro che sono convinti dell’opportunità che le forze americane non abbandonino subito l’Iraq, e sono la maggioranza. Ora più che mai è chiaro che l’America deve cambiare strategia. Facendo un passo indietro dalla scena pubblica. Seguendo il modello britannico dell’indirect rule, ovvero mantenere il controllo della situazione ma attraverso un governo locale. E’ giunto il tempo di archiviare l’esperienza fallimentare del «governatorato americano». Restituendo il governo dell’Iraq agli iracheni.

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