Da La Repubblica del 03/11/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/esteri/iraq4/fantasmi/fantasmi...

Quei fantasmi che turbano Bush

di Vittorio Zucconi

STAVANO volando verso la licenza, due settimane di "R&R", nel gergo militare, di riposo e di relax, le trentasei "Aquile Urlanti" della 82esima abbattuti da un razzo a Falluja e finiti in un braciere di rottami, tra quindici compagni carbonizzati e ventuno feriti gravi. Forse credevano un poco anche loro, mentre pregustavano il decollo verso gli Stati Uniti dall'esecrato Iraq, all'affannato battage propagandistico del loro presidente, del loro ministro della Difesa, dei loro generali che predicano il "tutto va meglio" ma non sanno più come spiegare né come respingere questa che finalmente lo stesso Rumsfeld ha chiamato, ieri, "una guerra" e che non stanno affatto vincendo. Ma quello che i paracadutisti uccisi e i 350 loro compagni abbattuti in sei mesi credevano e sognavano (neppure il numero dei morti americani o iracheni è certo, in questa guerra di bugie) non li ha protetti dal missile che ha centrato il motore del loro Chinook, il grande elicottero che ha preso, come tanti elicotteri militari, un nome indiano, quello di un misterioso vento caldo che soffiava negli inverni gelidi delle praterie del Nord.

Non li ha protetti esattamente come le fatiche delle pubbliche relazioni e le acrobazie dialettiche dei teorici della guerra non stanno proteggendo George Bush e i suoi cattivi consiglieri dalla verità che la gente, e soprattutto le famiglie dei 135 mila soldati sparpagliati al fronte per fare da bersagli al tiroassegno, ormai vedono. Che questa "liberazione" annunciata è, e continua a essere, una guerra vera e non si possono scambiare, come in un suk tragico, il numero di scuole che riaprono con il numero dei mutilati di guerra, la quantità dei barili di petrolio che tornano a scorrere con il bilancio dei soldati morti. Il miglioramento, nella vita quotidiana degli Iracheni, esiste, anche perché nulla potrebbe essere peggio di prima. Ma c'è qualcosa di osceno e offensivo nel presentare la situazione come fossero ragioni di scambio commerciali, come se i morti e i mutilati fossero un listino prezzi da pagare per acquistare un prodotto interessante sul mercato della politica e del prestigio personale di un presidente.

Ogni giorno che si trascina nelle bugie e nelle mezze spiegazioni che non spiegano niente (chi sono i nemici? Vecchi "boia chi molla" saddamisti? E quanti erano, se il regime era così odiato? Stranieri fanatici reclutati da Al Qaeda? Agenti infiltrati da nazioni vicine che vogliono l'emorragia dell'America per sconfiggere il progetto di una democrazia araba in Medio Oriente?) rende più difficile ricomporre la doppia verità che pure esiste, tra progressi civili e disastri militari come questi. Anzi, ogni bollettino divarica il "credibility gap", la distanza fra la versione ufficiale - tutto va meglio - e la verità dei bollettini - tutto va peggio per gli occupanti/liberatori. Insinua il sospetto che, dietro la boria delle affermazioni pubbliche, in realtà il quartier generale di Washington cominci a preparare la ritirata, nel classico segno del "proclamare vittoria e alzare le tende". Come notava ieri il New York Times, questa insistenza sulla irachizzazione della guerra, vestendo di uniformi poliziotti ed ex soldati di Saddam, può significare che Bush vuol dare in fretta una faccia irachena alle vittime e riportare a casa i suoi soldati, prima che scatti la tagliola delle elezioni presidenziali.

Di certo, così, con lo stillicidio quotidiano di cittadini soldati, divenuto ieri emorragia, non può continuare, perché la storia americana insegna che la pazienza, la lealtà, il patriottismo del popolo americano sono immensi e a noi inconcepibili. Ma immenso non vuol dire infinito e non si può credere che il pur colossale shock dell'11 settembre abbia spostato per sempre i termini del "patto civile" tra l'America e i propri leader, rendendo accettabile ogni menzogna pre bellica e ogni bilancio post bellico di vite consumate in un'impresa senza fine, con una scrollata di spalle o con la formula del "prezzo da pagare" (per gli altri).

Si vedrà adesso, la qualità di leadership di questo presidente, ammirevole quando si tratta di recitare discorsi e lanciare guerre, molto meno convincente quando deve misurarsi con le scelte difficili, come dimostra la sua politica di concedere tutto a tutti nelle sue finanziarie e nelle spese pubbliche, come neppure presidenti cosiddetti "di sinistra" avevano osato fare. Soltanto un leader politico di straordinaria statura e coraggio potrebbe trovare la forza per dire subito, prima che sia troppo tardi, prima che il gap di credibilità divenga un canyon incolmabile, che molte delle premesse della guerra erano fasulle. E gli scenari rosei di folle festanti e di democrazia fiorente in stile "25 aprile" erano volgari falsi ideologici, secondo uno studio della indiscutibile "Rand Corporation" consultabile on line dove si è calcolato che il numero di soldati americani uccisi per rappresaglia in Europa e in Giappone dopo la liberazione fu zero. Neppure uno.

La collera del popolo americano, quando vede violare il paradigma costituzionale con i depositari della propria democrazia, sa essere travolgente come un'alluvione e lo potrebbero dire a Bush Nixon, Johnson, lo stesso Clinton. Le imprese militari americane oltremare collassano non perché i morti sono troppi, un concetto sempre relativo all'importanza vitale dell'impresa, ma quando la ragione per quei morti diviene improbabile e la versione ufficiale si scolla irrimediabilmente dalla realtà. Fu così in Vietnam, dove non furono il Nord e i Vietcong a sconfiggere l'America, ma fu l'America a sconfiggere se stessa con la menzogna. Il punto di svolta non fu il numero di perdite ma fu la scoperta che l'ottimismo rassicurante dei comandi, gli occhiali rosa dei politici, l'ordine tassativo, a diplomatici e giornalisti, di dare soltanto "buone notizie" come si tenta di fare ora, erano inganni e i Vietnamiti non stavano affatto perdendo la guerra. Fu così in Somalia, dove un'operazione venduta come umanitaria divenne una strage nelle vie di Mogadiscio e in Libano, quando i marine inviati per dividere i combattenti si trovarono loro stessi obbiettivi di guerra.

È ovvio, almeno per chi non sia accecato dall'antiamericanismo, dall'odio per Bush e dal "tanto peggio tanto meglio", che non ci sono possibili dietro front per questa avventura americana, perché una ritirata in questa situazione sarebbe una disfatta colossale e forse foriera di tragedie ancora più grande, e proprio questa era una delle preoccupazioni principali degli amici dell'America quando la videro schiumare al morso per partire "cavalier seul" su un percorso senza vie di ritirata. C'è solo la strada di un'avanzata verso la verità, detta al popolo americano, ai suoi amici nel mondo, ai popoli europei e ai loro governanti, se questo presidente smetterà di zuccherare l'amarissima medicina irachena. E riconoscerà, come forse ha cominciato a fare Rumsfeld parlando di "guerra" ancora in corso, che neppure nel nuovo ordine mondiale immaginato dalle farneticazioni di Wolfowitz, dei neo-cons e del nuovo fondamentalismo religioso americano, si possono consumare vite di cittadini soldati impunemente sull'altare dell'ideologia, perché questo, sì, sarebbe profondamente antiamericano.

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