Da Corriere della Sera del 29/10/2003

«Stragi firmate anche da agenti stranieri»

La risposta di Bush: «I terroristi non ci piegheranno. Controlli più severi al confine con Siria e Iran»

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Il presidente Bush accusa «baathisti e terroristi stranieri» dell'ondata di attentati in Iraq, ammonisce che «non si lascerà piegare», spiega che sempre più truppe americane e irachene presidiano i confini con la Siria e l'Iran per prevenire le infiltrazioni nemiche, che Washington «lavora da vicino con Damasco e Teheran» perché facciano altrettanto. Annuncia un cambiamento tattico: la formazione di una intelligence irachena, il rafforzamento delle polizie locali e l'attivazione di forze di pronto intervento Usa «su bersagli mirati». Ammette che «la situazione è molto pericolosa» e non esclude di dovere mandare più soldati in Iraq: «Le decisione - dichiara - spetta al capo del Comando centrale, il generale John Abizaid. Per ora, gli bastano quelli che ci sono». Quando una giornalista gli chiede se tra un anno potrebbe incominciare a ritirare le truppe, sbotta: «Non rispondo, è una domanda trabocchetto».

È l'offensiva dei kamikaze in Iraq a indurre Bush a convocare all'improvviso una conferenza stampa, la decima della sua presidenza, alla vigilia di un giro elettorale in America. Bush afferma che l'obbiettivo dei kamikaze è di spaventare i Paesi che stanno per fornire truppe e aiuti finanziari a Bagdad, che i seguaci di Saddam Hussein colpiscono «per conservare i loro privilegi» e gli agenti stranieri, invece, perché «un Iraq libero e in pace non regalerebbe più reclute al terrorismo».

Assicura che i terroristi saranno sconfitti. Ripeterà tutto più tardi in un incontro serale con i leader musulmani Usa.

Alla tv, che trasmette la diretta, il presidente appare teso, sulla difensiva. Rinfaccia al suo entourage lo striscione «Missione compiuta», davanti al quale il primo maggio egli decretò «la fine della guerra» dalla tolda della portaerei Lincoln: una mossa sbagliata. Rimprovera ai giornalisti di ingigantire ciò che di negativo avviene in Iraq e di minimizzare ciò che vi avviene di positivo. «Sono i progressi da noi compiuti in Iraq a spingere il nemico a questi atti efferati, mossi dalla disperazione - sostiene Bush -. Siamo in guerra, l'Iraq è la prima linea della guerra al terrorismo, che colpisce la Croce Rossa a Bagdad, ma può colpirci di nuovo in casa». E martella: «Manterremo la rotta perché è essenziale per l'America, per il mondo, i nostri figli e nipoti. Non scorderemo l'11 settembre 2001».

Nei 45 minuti della conferenza stampa, il discorso tocca anche Israele. Il presidente non raccoglie la provocazione di un giornalista: «Perché non tratta Arafat da terrorista, come Saddam Hussein?». Proclama che il ricorso alla forza è riservato ai casi estremi, che il raìs iracheno aveva violato le disposizioni dell'Onu e occultato i piani di riarmo con armi di sterminio. Sfoggia persino il latino: «Con Saddam, c'era un casus belli» (lo pronuncia cosis bellai ). Bush si guarda dal criticare il premier israeliano Sharon: denuncia «il muro» e gli insediamenti da lui voluti nei territori palestinesi, ma attribuisce al terrorismo la colpa della mancata pace.

Quando gli viene chiesto delle elezioni negli Usa, si mostra sereno: «Con le guerre dell'Afghanistan e dell'Iraq abbiamo aumentato la sicurezza dell’America».

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