Da Corriere della Sera del 17/10/2003

Così cambia il dopoguerra

di Gianni Riotta

NEW YORK - Ieri, alle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza ha approvato, all'unanimità, 15 voti a 0, la Risoluzione 1511 che crea una forza militare multinazionale in Iraq, a guida americana, concede al segretario generale Kofi Annan spazio di manovra diplomatica e invita i Paesi membri ad aiutare, con truppe e capitale, la ricostruzione, auspicando la transizione verso un governo iracheno a Bagdad. Questa è la notizia che trovate in prima pagina sui giornali di tutto il mondo. Il paragrafo che leggerete invece sui futuri testi di storia dei licei concerne il modo in cui si è arrivati alla 1511.

Mercoledì sera, la proposta di risoluzione sponsorizzata da Stati Uniti, Camerun e Gran Bretagna si era arenata. In Consiglio promettevano di votarla gli spagnoli, ma il mandato del segretario di Stato americano Colin Powell al suo ambasciatore al Palazzo di Vetro John Negroponte era cristallino: prova a ottenere l'unanimità, un voto a risicata maggioranza ci delegittima più di prima.

Dal vertice dell'Unione Europea a Bruxelles, però, giungono a New York brutti segnali. Francia e Germania trovano il testo del documento ancora troppo predisposto a concedere mano libera all'Autorità provvisoria Usa guidata a Bagdad da Paul Bremer. Il presidente George W. Bush, in procinto di partire per l'Asia, chiede di concludere. Powell non demorde e prova a limare il linguaggio. A questo punto l'ambasciatore russo Sergey Lavrov si consulta con il presidente Vladimir Putin, in transito verso Kuala Lumpur e il vertice dei Paesi musulmani.

La storia gira pagina. Putin ordina a Lavrov di prendere tempo al Palazzo di Vetro e chiama il presidente francese Jacques Chirac e il cancelliere tedesco Gerhard Schröder. La troika Mosca-Parigi-Berlino, fronte del no all'attacco a Saddam Hussein, si raccoglie via cavo. Putin, a sorpresa, propone tre emendamenti alla 1511 che permettono di salvare la faccia, ma in buona sostanza concedono a Bush il mandato Onu di cui ha disperatamente bisogno contro l'impasse e la guerriglia in Iraq. Mentre la trattativa ferve, l'ambasciatore cinese Wang Guangya raggiunge Lavrov e gli comunica: «Se approvate la risoluzione, siamo a bordo anche noi». Wang chiama quindi, compito, l'ambasciatore Negroponte e conferma: il presidente cinese Hu Jintao ordina di votare la 1511 d'intesa con il Cremlino. Il negoziato planetario di Vladimir Putin è compiuto. Chirac e Schröder prendono atto che quattro membri permanenti del Consiglio, Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia e Cina, sono d'accordo. Per bloccare la risoluzione Chirac potrebbe brandire il veto, ma a costo dell'irreparabile rottura del vecchio fronte occidentale. Pare che il ministro degli Esteri francese, l'irriducibile Dominique Galozeau de Villepin, abbia suggerito l'astensione, ma Chirac ha compreso che il sì di russi e cinesi lo metteva alle corde.

Ieri mattina, alle dieci di New York il voto, 15 a 0. Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale e dalla fine della Guerra fredda, l'intesa è stata raggiunta grazie a una mediazione russa, con avallo cinese, tra americani, inglesi e spagnoli da una parte, contro francesi e tedeschi.

Chi ancora non si rende conto di come l'11 settembre 2001 abbia mutato la storia del nostro pianeta fa in tempo a svegliarsi. L'ambasciatore spagnolo Inocencio F. Arias commenta con saggezza la straordinaria giornata: «Per un diplomatico come me l'esperienza di oggi è unica. Ho visto i russi far da ponte tra Paesi alleati, Spagna, Stati Uniti, Gran Bretagna da una parte, Francia e Germania dall'altra. Sono felice di esser stato testimone del mutamento storico».

E' questo il significato profondo di giovedì 16 ottobre 2003. Putin ha accettato, con realismo, la realtà delle truppe americane in Iraq e ha giocato di conseguenza. Il caos a Bagdad, gli americani che sprofondano, la guerriglia, l'Onu paralizzata, il terrorismo islamico rampante, pericolosi effetti sulla stabilità del Medio Oriente e il prezzo del greggio, sono pericoli eccessivi per tutti. Adesso Chirac e Schröder devono decidere se restare al traino diplomatico, o mettere da parte l'orgoglio e riprendere la parte dei protagonisti. Il malumore resta, sotto pelle, con Galozeau de Villepin che parla di «scarso entusiasmo» e l'ambasciatore di Berlino, Gunter Pleuger, che, occhi bassi, commenta: «Manca il segnale chiaro per accelerare il trasferimento di poteri al popolo iracheno».

Sul campo, in Iraq, non cambierà molto. Con Russia, Francia e Germania anche il Pakistan ha confermato - tramite l'ambasciatore Munir Akram - di non voler mandare truppe. Il mandato Onu rende però più semplice ai militari inglesi e italiani di restare al lavoro per ripristinare ordine e democrazia sulle rovine del regime di Saddam Hussein e meno difficile a Turchia e India la mobilitazione di loro forze di pace.

Ha stupito anche il voto favorevole della Siria, membro temporaneo del Consiglio di Sicurezza, giusto mentre Washington discute di sanzioni contro Damasco, e Israele non esita a lanciare un blitz antiterrorismo in territorio siriano. La scelta discende dallo stesso realismo che ha mosso la brillante manovra diplomatica di Putin. Gli Stati Uniti sono a Bagdad per restarci. Anche se Bush perdesse le elezioni, fra tredici mesi, nessun rivale democratico ha in programma la rapida ritirata dal Golfo. Pian piano, l'impatto della caduta del regime baathista si fa largo nelle coscienze. A Mosca con la mediazione che rompe, magari temporaneamente, l'asse con Parigi e Berlino. A Damasco con un sì che punta a rallentare l'isolamento. In Arabia Saudita con la convocazione di elezioni locali, per la prima volta nella rigida vita della nazione wahabita: se in Iraq si vota già nei villaggi e presto, su mandato Onu, si andrà alle urne per eleggere il governo, non è possibile che l'alleato più caro a Washington si ostini nella regola autocratica.

Queste le conseguenze, vicine e remote, delle ventiquattro ore tra mercoledì e giovedì. Una giornata storica e non stupitevi troppo, ne vivremo presto delle altre, altrettanto imprevedibili pochi anni fa. Morale provvisoria? I leader capaci di muoversi con dinamismo, alla Putin e Hu Jintao, sono in vantaggio nella storia che corre. I leader stretti da un corsetto ideologico e legati al mondo di una volta, da Chirac al ministro della Difesa Usa Donald Rumsfeld, sono meno agili. I leader «soft», da Kofi Annan al segretario Powell, possono ottenere a sorpresa successi contro i «duri»: tolleranza e dialogo potrebbero rivelarsi la vera arma segreta contro gli apparati tardo machiavellici.

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