Da La Repubblica del 13/10/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/esteri/iraq3/zucc/zucc.html

In questi giorni la Casa Bianca è impegnata in una campagna volta a convincere l'opinione pubblica che le cose vanno meglio

La guerra strisciante non ferma Bush

L'Amministrazione accusa i media di badare solo alle notizie negative. La guerriglia ha colpito anche la propaganda di Washington

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - Tutto va meglio, tutto va peggio, nel laboratorio dove l'America di Bush sta sacrificando se stessa e le vite di tanti per salvare le scelte politiche di Bush. La domenica dopo una settimana di furiosa controffensiva di pubbliche relazioni voluta dalla Casa Bianca, gli schermi dei televisori americani accesi nell'attesa delle partite di football e di baseball si dividono tra le fiamme che si alzano dall'hotel della Cia a Bagdad e le parole rassicuranti del governo.

Sono due immagini e due storie soltanto in apparenza contraddittorie ma nella sostanza oneste, perché su questo binario parallelo di devastazione e di ricostruzione, di bambini che tornano a scuola e di soldati americani che tornano a casa avvolti nella bandiera corre il convoglio di un impegno americano che né le bombe né i cecchini deraglieranno per molto tempo a venire. Chi attacca i soldati e fa saltare alberghi a Bagdad, forse ignora o dimentica che furono necessari 15 anni di sangue e 58mila caduti per piegare la volontà americana in Indocina.

Non è possibile sapere se l'attacco all'hotel Bagdad dove erano scesi gli inviati della Cia e risiedevano i loro protetti del "Consiglio" di governo, sia stato pensato e lanciato perché coincidesse e quindi prendesse in contropiede la campagna delle buone notizie. Seguire la logica distorta del terrorismo, di qualunque ispirazione esso sia, è notoriamente un vicolo cieco.

Ma la semplice coincidenza del "migliore dei tempi" con il "peggiore dei tempi" è oggettivamente destinata a colpire l'edificio di ottimismo che con tanta fatica il team Bush tenta di costruire.

L'autobomba contro l'hotel Bagdad, fortunatamente già protetto da barriere di cemento che hanno evitato la strage del 19 agosto nella sede dell'Onu massacrando 22 persone, conferma il paradosso di ogni occupazione e la profonda vigliaccheria di ogni azione terroristica, sintetizzato da Henry Kissinger con la sua formula del 5%: "Noi possiamo controllare il 95% del territorio e della popolazione, ma ai terroristi basta riuscire nel 5% dei loro attacchi per creare l'impressione che siano loro a controllare la situazione".

Il dramma politico, e propagandistico, che questo attacco lanciato a un luogo esemplare come l'albergo che ospita i simboli dell'occupazione, è esattamente quello descritto dal vecchio Kissinger. È vero che le cose, in Iraq, vanno obbiettivamente un po' meglio. La delegazione parlamentare della Commissione antiterrorismo del Congresso che sabato ha sorvolato la valle del Tigri e dell'Eufrate a bassa quota su un Hercules C-130 ha riferito, con sorpresa bipartisan, di avere visto città e villaggi illuminati, almeno quanto erano illuminati nelle foto spia dell'aviazione Usa scattate prima della guerra. La nuova polizia irachena ha raggiunto i 70mila agenti, pochissimi per una nazione di 24 milioni (la sola New York, con 8 milioni di abitanti, ha 85mila poliziotti) ma almeno esiste e i morti iracheni all'hotel Bagdad di ieri sono la prova che i terroristi sono ormai costretti a colpire anche loro, e non soltanto gli occupanti in divisa americana. Insegnanti e poliziotti sono finalmente pagati e il Giappone ha promesso due miliardi di dollari, per contribuire senza partecipare e senza rischiare le vite dei propri soldati, come altre nazioni senza soldi sono costrette a fare.

Ma tutti i progressi dei quali polemicamente parlano da giorni il vicepresidente Cheney, Condoleezza Rice, i deputati spediti in Iraq per ispezioni al fronte e lo stesso Bush, nel discorso alla radio sabato scorso, appaiono spaventosamente fragili di fronte alla sempre maggiore aggressività degli insurgents, dei ribelli all'occupazione, come il chiama il generale Abizaid, comandante sul campo. La Casa Bianca accusa i media e i giornali ostili alla guerra di distorcere la realtà e di concentrarsi sui continui attacchi alle truppe (327 caduti e anche ieri 3 soldati feriti, uno gravissimo), sui sabotaggi agli oleodotti (anche ieri un altro) sulle 15 imboscate in media al giorno contro i soldati Usa.

Il presidente snocciola giaculatorie confortanti, l'elettricità e l'acqua che lentamente ritornano, i consigli comunali e di quartiere eletti dai cittadini, le scuole che riaprono con i sillabari riveduti e corretti secondo i canoni della nuova political correctness, le donne che entrano a fare parte, con il velo o con il volto scoperto, senza discriminazioni, dei nuovi governi locali.

Ma poi, nella mattina di una tranquilla domenica americana d'autunno, nel week end lungo della festa di Cristoforo Colombo, gli schermi delle tv infrangono il vetro della propaganda. Un giornale dell'Oregon scopre un altarino classico della "guerra psicologica", ricevendo - per incuria di qualche funzionario del Pentagono - due della stessa, falsa lettera circolare dal fronte che i soldati devono firmare per fare credere a casa che "tutto va bene". E il classico rischio della propaganda, si ripresenta e si materializza nei corpi estratti dalla macerie dell'hotel della Cia. Più si esagera con l'ottimismo, più forte è lo shock di quello che ieri - e certamente anche domani - la realtà presenta. Ma se la fatica di questa guerra pesa, sulla coscienza e sul portafoglio, non saranno né la propaganda cruenta dei terroristi né gli eccessi del marketing rassicurante della Casa Bianca a spingere, per ora, l'America fuori dall'Iraq.

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