Da Corriere della Sera del 25/09/2003

Un presidente verso le urne

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Non fosse stato per il cancelliere tedesco Schröder, che gli ha offerto un ramo d'ulivo subito accettato, il presidente Bush e l'America sarebbero usciti umiliati dai due giorni di discorsi e di colloqui all'Onu, il peggiore sbocco possibile per l'Iraq e per i rapporti atlantici. Al Palazzo di Vetro di New York, Bush e la Superpotenza si erano trovati sotto assedio per il loro unilateralismo e per il ricorso alla guerra preventiva. Il discorso del presidente, conciliante nel tono ma rigido nel contenuto, e soprattutto fumoso nei programmi - «un fiasco» secondo il Washington Post , un suo sostenitore - sembrava addirittura avere reso più difficile, non facilitato, un accordo sulla risoluzione Usa. La pace con la Germania e la disponibilità a un compromesso manifestata del presidente russo Putin nell'incontro con Schröder e Chirac, hanno migliorato il clima. Bush ha potuto lasciare l'Onu a testa alta, nè vincitore né sconfitto.

E' probabile che l'ottimismo manifestato dal ministro degli Esteri inglese Straw sia prematuro. Di fronte all'Assemblea generale anche Schröder ha ribadito che solo l'Onu può legittimare i poteri e la ricostruzione in Iraq. E dopo l'incontro a tre, pur professando «spirito costruttivo», il presidente francese Chirac ha sottolineato che «non esiste un'ombra di differenza tra la Francia e la Germania» e che «la Russia è assai vicina». Al Consiglio di Sicurezza, che attende una bozza profondamente riveduta e corretta della risoluzione americana, si prevede un accordo faticoso e limitato. Bush e l'America, si dice, otterranno qualche soldo e qualche truppa, ma meno di quanto sarebbe necessario. La maggioranza dei Paesi islamici, a esempio, pone due condizioni per un intervento: che lo richieda un governo iracheno e che ci sia un mandato Onu. Potrebbe fare eccezione la Turchia, che ha appena ricevuto un prestito di oltre 8 miliardi di dollari dagli Usa.

Un successo formale di Bush il mese prossimo al Palazzo di Vetro di New York non eliminerebbe comunque l'ostacolo principale all'autonomia e alla ricostruzione dell'Iraq: il suo rifiuto di delegare all'Onu la supervisione politica ed economica a Bagdad, conservando il comando militare, il più importante per la sicurezza del Paese e per la lotta al terrorismo. Per ora Bush sembra credere di avere ancora il tempo sufficiente per risolvere la crisi irachena prima delle elezioni del novembre 2004 - e in parallelo di rilanciare l'economia americana - e di venire rieletto facilmente. E' quanto gli ripetono i falchi come Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa che al Congresso ha dipinto un Iraq in tinte rosa. Solo così si spiega la sua sordità ai sondaggi d'opinione, che lo vedono in vertiginoso calo, e che attribuiscono un vantaggio di 3 punti percentuali al capofila dei candidati democratici, il generale Wesley Clark.

E' una scommessa rischiosa. La formula riduttiva di Bush, «l'Onu può aiutare nei preparativi della Costituzione e delle elezioni», sa di resa ai neoconservatori, lo zoccolo duro del suo elettorato. Ma non è quella auspicata dal voto fluttuante né da quello moderato americano, che a causa delle perdite militari e delle enormi spese cominciano a chiedere il graduale disimpegno dall'Iraq. Il presidente e il suo guru elettorale Karl Rove sono troppo buoni politici per ignorarlo: se tra qualche mese la crisi irachena fosse ancora irrisolta, riesaminerebbero la loro strategia. Non sorprenderebbe se l'America ritornasse all'Onu disposta a delegare alcune responsabilità in cambio dell'invio di una vera forza internazionale di pace e di massicci investimenti a Bagdad. Nella sua storia recente, dal conflitto di Corea in poi, la politica estera è stata sovente una funzione di quella elettorale.

In questo quadro, il compito dell'Europa non è di dare un ultimatum alla Superpotenza, ma di indurla ad affrettare i tempi e aprirsi di più all'Onu negli imminenti negoziati, come sollecitano gli iracheni stessi.

Una svolta del genere sarebbe anche nell'interesse americano, perché allenterebbe le tensioni in Medio Oriente, e restituirebbe prestigio e autorità al Palazzo di Vetro di New York, come ha ricordato il segretario generale Kofi Annan. Non è escluso che, toccata con mano l'impossibilità di procedere da soli e solo sulla base della forza in un mondo multipolare, come dice Chirac, Bush e i bushiani mandino a mente la lezione di Bagdad, e ritornino al dialogo e alla diplomazia.

Probabilmente, i nemici del presidente, a Washington e altrove, si augurano che ciò non avvenga, e che egli sia sconfitto alle urne nel 2004. Ma la questione non riguarda gli alleati, riguarda solo gli elettori americani, che se non altro devono a Bush di avere garantito la loro sicurezza dopo le stragi dell'11 settembre del 2001.

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