Da Corriere della Sera del 24/09/2003

La rete in Italia

I soldi delle moschee per i fanatici di Allah

di Magdi Allam

MILANO - Non di sola fede vivono i fanatici di Allah. Se il fondamentalismo religioso e il messianismo ideologico plasmano la loro personalità, la linfa vitale che li anima ha un nome assai più prosaico: il denaro. Il familiarissimo dio denaro. I santissimi maledettissimi soldi senza cui non potrebbero affermare il proprio potere. Dispensando favori, plagiando, corrompendo, ricattando, minacciando, uccidendo. E i fanatici di Allah che hanno eletto la culla della cattolicità a propria roccaforte non fanno eccezione. Diverse moschee d'Italia sono double face. La facciata è impeccabile. L'attività in regola. I conti tornano. Ma è nel retrobottega che si fanno i giochi sporchi. Da lì i soldi della zakat, l'elemosina islamica, vanno a finire in Iraq, Palestina, Algeria e Cecenia. Ed è l'insospettabile circuito di enti finanziari, associazioni caritatevoli, agenzie di comodo che regolarizzano i clandestini, macellerie halal, esercizi commerciali, librerie, call center e money transfert che assicurano un fiume di denaro fresco alla jihad, la guerra santa islamica. Dunque: cherchez l'argent. Conoscere il diritto e il rovescio della complessa e torbida realtà dei soldi che ruotano attorno alle moschee del nostro Paese è necessario per una corretta comprensione della portata della minaccia. Ma anche per non generalizzare. Soprattutto per favorire un futuro in cui le moschee d'Italia siano esclusivamente dei luoghi di culto. Trasparenti. Compatibili. Né più né meno. Probabilmente il personaggio emblematico della realtà delle moschee double face è Abdelhamid Shaari. Il presidente dell'Istituto culturale islamico di viale Jenner a Milano è di origine libica con cittadinanza italiana. Si presenta come un distinto e pacato signore di mezz'età. Da anni abbiamo instaurato un rapporto franco e cordiale. Consumando insieme un pranzo a base di pesce, Shaari conferma pragmatismo intellettuale, disponibilità umana e fiducia personale. Mi confida una svolta nella gestione della moschea più inquisita e sospetta d'Italia: «Ho deciso e ho convinto il direttivo dell'Istituto a trasformarci in una onlus. D'ora in poi sarà tutto trasparente e registrato, dal bilancio all'attività. Daremo tutte le garanzie". E mi anticipa i numeri. Per la prima volta si hanno finalmente i numeri del bilancio di una moschea. E quale moschea! Per la Cia l'Istituto di viale Jenner è la principale base di Al Qaeda in Italia. Stiamo parlando di un bilancio annuo di 400 mila euro di entrate e altrettanti di uscite. Potrebbero essere molti o pochi. Sono meno dei circa 600 mila euro versati annualmente dall'Arabia Saudita alla Grande moschea di Roma, di cui la metà va alle spese del personale e l'altra metà alla gestione interna. Ma più che l'entità è da rilevare la strutturazione del bilancio dell'Istituto di viale Jenner. Dove la parte del leone la fa il business. L'87,5 per cento delle entrate e il 62,5 per cento delle uscite fanno riferimento alla compravendita di prodotti offerti all'interno della moschea: generi alimentari, pasti caldi, libri e audiovisivi islamici. La formula «moschea-bazar» è assai diffusa. Garantisce l'autofinanziamento e il reperimento dei fondi necessari per promuovere delle attività. Questa è la facciata pulita. Ma il rovescio della medaglia ci svela una realtà contrapposta, inquietante. La Guardia di Finanza ha recentemente scoperto che l'Istituto di viale Jenner, in aggiunta a società di comodo (General service, Service Scarl, Nafissa service, Work service), è coinvolto in un traffico di regolarizzazione dei clandestini tramite il rilascio di falsi certificati di lavoro che sono il requisito per ottenere il permesso di soggiorno. Dietro questa attività emerge una struttura islamica integralista che raccoglie ingenti somme per autofinanziarsi. Il costo di una pratica di regolarizzazione va dai 2.500 ai 3.000 euro, a fronte di un costo effettivo di 700 euro. Le cifre raccolte sono sicuramente ragguardevoli. L'aspetto peculiare è che viene praticato un pagamento differenziato per i clandestini generici e per quelli che sono invece disposti a favorire la causa islamica. Questi ultimi pagano la metà. In questo modo la regolarizzazione illecita dei clandestini consente due risultati: il finanziamento delle attività terroristiche e il reclutamento di soggetti disposti a arruolarsi per la Guerra santa. Ci sono le prove che i soldi della zakat e delle attività illecite gestite da alcune moschee italiane sono andate a finanziare il terrorismo islamico internazionale. Lo scorso settembre a bordo di una Peugeot 205 targata MI 3S3633 sono stati rivenuti 50 kg di monetine, per un totale di 4.500 euro. Erano i soldi della zakat raccolti nella moschea El Nur di via Massarenti a Bologna, gestita dall'Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia). I soldi erano di pertinenza dell'imam della moschea, l'egiziano Nabil Bayoumi. I «postini» erano dei tunisini legati all'imam della moschea di viale Jenner, l'egiziano Abu Imad. La destinazione finale del denaro era il finanziamento di un'operazione terroristica all'estero ribattezzata con il nome in codice «Partita di calcio». Più recentemente, la scorsa primavera, è stato individuato un flusso di denaro che dalla Germania arrivava all'imam della moschea di Cremona, Trabelsi Mourad, esponente del Fronte combattente tunisino. Non erano cifre importanti, tra i 1.500 e i 3.000 euro, ma erano ripetute. Trabelsi, tramite emissari o il sistema del money transfert rigirava il denaro al connazionale Drissi Noureddine, detto Abu Ali, il bibliotecario della moschea di Cremona trasformatosi in gestore del campo di Ansar al Islam, un gruppo terroristico legato a Al Qaeda, nel Kurdistan iracheno. Nel caos che regna sul piano della rappresentanza religiosa e delle fonti di finanziamento delle moschee in Italia, si fanno strada i personaggi più spregiudicati. Veri e propri boss che gestiscono delle mafie religiose e economiche. Bouriqui Bouchta, il sedicente «imam di Torino», gestisce tre moschee e due macellerie. Noureddin Chemaoui, sedicente «presidente della Comunità islamica di Roma e del Lazio», gestisce due moschee, una macelleria e un'agenzia di regolarizzazione degli immigrati. Esiste un'intensa attività criminosa legata al circuito delle macellerie islamiche. Un altro filone di finanziamento è la produzione di documenti falsi. E' Napoli la cartiera del terrorismo islamico che da un lato assicura degli utili a fini commerciali e dall'altro, consente l'attività clandestina delle cellule islamiche. Nella fase di produzione è coinvolta la camorra, mentre la fase di commercializzazione è di competenza degli islamici algerini del Gia (Gruppo islamico armato) e del Gspc (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento). Non contano tanto i numeri. La valutazione effettiva del valore dei finanziamenti all'attività terroristica non va fatta sulla base del valore assoluto del denaro circolante, che può apparire modesto. Ciò che invece conta è il valore reale del denaro in considerazione del tenore di vita dei Paesi a cui è destinato. Ad esempio, in una intercettazione telefonica dal Kurdistan, il tunisino Abu Ali specifica: «Qui 1.500 euro ci bastano per un mese». In Italia 1.500 euro sarebbero sufficienti a coprire le spese di una sola persona, ma in Iraq consentono di provvedere alle necessità di decine di mujahiddin all'interno di un campo di guerriglia. Soprattutto è stata accertata la presenza di un sistema finalizzato al finanziamento del terrorismo che ruota attorno a talune moschee d'Italia. Questa è la grande novità. Ed è la vera sfida a chi è interessato a estirpare questa piaga e a assicurare la piena compatibilità dell'islam italiano con le nostre leggi e i nostri valori.

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