Da La Repubblica del 15/07/2003

Centinaia di predoni uccidono e rubano: agiscono di notte, i marines non sanno come combatterli

Il nuovo incubo di Bagdad ostaggio delle bande criminali

di Attilio Bolzoni

BAGDAD — I nuovi padroni di Bagdad sono quelli che ammazzano anche per niente, sono gli issabat, i banditi, i predoni, sono gli sciacalli. che si aggirano per una città. che è un territorio di caccia. La capitale dell’Iraq a cento giorni dalla fine della guerra è nelle loro mani, saccheggiata fino nelle sue viscere, violata in ogni sua casa, atterrita, presa in ostaggio. Uccidono per pochi dinari il primo che passa, sparano raffiche di mitraglia contro gli straccioni che si trascinano nei vicoli, stuprano ragazzine, assaltano botteghe, si ubriacano di vodka ghiacciata, portano via dai palazzi ministeriali blocchi di marmo, pezzi di legno e perfino mattoni che poi rivendono al “mercato dei ladri”, il bazar degli Alì Baba che è in quella periferia miserabile una volta chiamata Saddam City.

L’ultima scorribanda l’hanno fatta l’altra notte in un ospedale al di là del fiume, nella città nuova e ordinata che era privilegio esclusivo dei burocrati del regime, costruzioni tutte uguali e numerate come i bracci di un carcere, larghe vie ben asfaltate, parabole sui tetti, piante su qualche balcone. In tre o in quattro sono entrati nella farmacia dell’ospedale e l’hanno svuotata. Poi si sono iniettati un po’ di quella roba che avevano rubato e hanno cominciato a fare razzia. Raccontano testimoni di averli visti scaricare le loro pistole sulla folla che aspettava il solito arrugginito autobus su piazza Thawra, qualcuno è caduto, forse morto o forse solo ferito.

Quando è giorno, i predoni rubano auto nella centrale piazza della Liberazione dove vagano sotto il sole ardente i giornalisti stranieri, in mano il loro telefonino satellitare Thuraya e sulle spalle zainetti gonfi di ogni ben di Dio. Si accostano a tutta velocità a un guidatore, gli fanno vedere la canna del revolver, lo stringono e poi – se va bene – se ne vanno con la sua macchina. Quando è notte, imperversano dalle periferie più lontane alla medina. Ormai Bagdad non riesce più a dormire, in ogni casa c’è la paura che da un momento all’altro gli issabat sfondino la porta. La polizia irachena è allo sbando e non può fare praticamente nulla, i soldati americani in certi sobborghi come Al Kifah sfrecciano veloci sui loro blindati e poi scompaiono, verso le vie più sicure che costeggiano il Tigri.

L’inferno però è anche qui, vicino al fiume. L’inferno si chiama Orfalya: fogne scoppiate, l’acqua che manca, la luce che non c’è, quartiere al confine del mondo che da una ventina di anni è abitato anche da sudanesi e somali approdati da queste parti per non morire. Entriamo nei suoi vicoli scortati dal nostro interprete Andraos e dal nostro autista Sanhareeb, che sanno come uscirne. Ci avviciniamo a qualcosa che sembra un bar, un gahwa come la chiamano qui. Cattivi odori che si mischiano all’afa dei cinquanta e passa gradi, occhi che ti seguono, ombre che ti scivolano alle spalle. Il ragazzo si chiama Ryadh e ha perso cinque parenti, tra fratelli e cugini, nelle tante guerre volute da Saddam, ma dice di non avere mai avuto tanto terrore come in queste ultime settimane. Racconta: «Ogni notte mi barrico dentro la mia bottega ma non riesco a prendere sonno, prego Allah che non mi succeda niente. Scendono sempre verso l’una ed è sempre terribile...». Scendono dalle viuzze fangose che arrivano dal fiume, poi si dividono i quartieri, uno per clan, mirano ai vetri delle finestre, rapinano le case dei commercianti più ricchi. Racconta ancora Ryadh: «Prima nel mio gahwa vendevo solo the e caffè, adesso non li vuole più nessuno. Tengo solo birra e vodka, cognac e gin. Bevono alcolici dalla mattina alla sera quelli, poi si scatenano...».

Si spacciano droghe di ogni tipo, qui a Orfalya. Il tam tam dei bazar riporta voci su un incredibile numero di violenze sessuali su bimbe e bimbi, ubriachi o impasticcati scorrazzano nel quartiere come lo “zio” Saddam scorrazzava fino a qualche mese fa nel “suo” Iraq, impuniti, a viso aperto. Nel bar di Ryadh c’è un uomo che non si regge in piedi. Gli hanno sparato sedici colpi tra la spalla e la schiena per portargli via 14 mila dinari, meno di 10 dollari. Si chiama Messer Swady. Dice: «Io lo conosco quello che mi ha ridotto così, il suo nome è Saad. Tutti conoscono Saad qui a Orfalya...».

Ogni bottino piccolo o grande che depredano a Bagdad finisce in quella grande discarica che è Saddam City, in mezzo a montagne di immondizia ecco tutto quello che è stato rubato la notte prima. Ci sono iracheni che vengono a ricomprarsi qui le loro cose, sottratte con la forza, portate via con le armi. Si compra di tutto. Una pistola a tamburo costa sui 250 dollari, un kalashinkov 90 dollari. Si comprano passaporti in bianco per 80090 dollari, una carta di identità ne costa appena 20, un documento che attesta che sei un militare e che hai il grado di colonnello e che hai fatto servizio in un battaglione si prende con 30 dollari. Si perde e si ritrova tutto tra Bagdad e Saddam City.

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