Da La Repubblica del 24/07/2003

La battaglia di Mosul per uccidere i due eredi

di Attilio Bolzoni

MOSUL – FUMA ancora di battaglia. Una nuvola nera avvolge la casa ricca di uno sceicco e copre il tetto che sta scivolando giù, sfondato da una tempesta di missili e granate. Fuma ancora di morte il covo di Uday e di Qusay, all’alba del giorno dopo nella Mosul che è diventata la loro tomba. Si nascondevano tra quelle quattordici o quindici stanze che abbiamo contato facendo il giro intorno al filo spinato, allungato sul ciglio della strada dai soldati americani che sono sempre qui in forza a cingere d’assedio la tana dei figli del raìs. Quel che resta del palazzotto di un capo tribù è lì dentro che brucia. Fra quelle pareti sventrate, fra le mura spesse dai riflessi ocra e gialli che si confondono con il colore della terra di Ninive, la provincia più a nord dell’Iraq, il primo cimitero del regime.

Erano rifugiati da almeno tre settimane in questa residenza da beduini influenti affacciata sulla via che porta verso la cittadina di Shekhan e le sue montagne. Sempre chiusi in uno di quei saloni a forma di cubo, colonne decorate con pietra rossa grandi finestre per prendere luce. Ogni tanto i vicini vedevano ombre muoversi oltre le vetrate della terrazza alta, ombre che sparivano all’improvviso. E poi si mostrava lui, sorridente, cerimonioso quel Nawaf Mohamed Al Zaidane, lo sceicco dell’importante famiglia dei Bou Issa, clan originario di Tikrit come il raìs, parenti di parenti del dittatore che con Saddam avevano però qualche conto da regolare. Nelle ultime tre settimane lo sceicco Nawaf salutava il vicinato come sempre. E andava e veniva dal suo palazzotto con un’automobile nuova di zecca. «Fino ai primi di luglio aveva una Peugeot, poi l’abbiamo visto con quella Bmw», racconta Yussef Hussein che vende stoffe e ha la casa a un passo dal covo fumante. La Bmw blu adesso è nel vicolo, sforacchiata, le gomme sgonfie, una carcassa bersagliata per cinque ore dal fuoco della 101esima Divisione aviotrasportata e della Cia.

E cominciato tutto tra le 9,15 e le 9,20 dell’altro ieri nell’elegante Al Falah, una lunga via con i pali della luce, villette decorose dove a volte arriva anche l’acqua, la moschea del martire sunnita Bashar Kalandir, il mercato con i suoi odori di spezie. Tutto mescolato nella tranquillità di una mattina qualunque alla periferia di Mosul. Ma tra le 9.15 e le 9.20 c’era Firas Salah che passava davanti alla moschea: un testimone oculare dell’inizio della fine dei figli del raìs. Ricorda: «Ho visto quattro blindati americani che si sono fermati proprio lì davanti, sono scesi, si sono avvicinati alla porta e quando lo sceicco è uscito un soldato l’ha preso per la camicia e l’ha strattonato, poi l’ha trascinato fino al blindato...». In quel momento sulla grande terrazza è apparso un uomo. Ha visto cosa stava accadendo e ha lanciato giù una granata. Racconta Firas: «Si è scatenato l’inferno, hanno cominciato a sparare da tutte e due le parti, dopo mezz’ora sono arrivati anche due elicotteri che hanno lanciato tre o quattro razzi».

Il primo ha scheggiato il cornicione della quinta casa nel vicolo. Il secondo ha spezzato una colonna di marmo rosa sulla quale poggiava un angolo della terrazza, il terzo ha buttato giù la facciata, il quarto ha disintegrato il tetto. Ma la battaglia è continuata. Anche quando da un alto parlante gli americani hanno chiesto la resa: «Consegnatevi e cesseremo il fuoco». Dall’altra parte hanno continuato a sparare. Quelli della 101esima li hanno inchiodati là dentro. Sapevano che nella casa dello sceicco c’erano i figli di Saddam Hussein. La soffiata era già arrivata lunedì sera. Sul posto erano schierati 200 americani, con gli Humvee armati di mitra pesanti calibro 50 e missili Tow, appoggiati dal cielo dagli elicotteri Kiowa. Nelle retrovie era pronto il pugno pesante degli Apache e dei caccia A-lO per sfondare i bunker, tenuti poi a freno per salvaguardare il quartiere. Un altro testimone si chiama Mahmoud. Dice: «È vero che i blindati erano solo quattro all’inizio ma lo sceicco Nawaf gli americani non l’hanno portato subito via: l’hanno accompagnato con i suoi figli nella casa di un vicino, Ahmed Tahar Zenawa e a lui, chissà perché, lo sceicco ha rivelato che nella sua villa c’erano Uday e Qusay». Strani passaggi per una cattura molto annunciata.

Le quattro case che confinano con quella del capo tribù sono state colpite tutte. Buchi grossi come mele nella camera da letto di Alia Hamed, un’ottantenne che abita qui con la figlia Wasma, il genero Hassan, i nipotini di Otto, sei e tre anni. Mostrano il cuscino bruciacchiato da un proiettile di mitraglia, i segni della pallottole sul letto, sugli infissi delle finestre. «Ci siamo nascosti qui giù», racconta Hassaan e indica un sottoscala che porta in una cantina piena di sacchi di farina. Una ventina le case danneggiate, colpita e affondata solo quella di Nawaf al Zeidan. Centrata da dieci missili Tow che, secondo gli americani, avrebbero ucciso Uday, Qusay e la guardia del corpo. Secondo un militare sentito dalla tv Abc, le ferite di Uday fanno pensare anche che il primogenito si sia suicidato. Unico sopravvissuto era Mustapha, 14 anni, il figlio di Qusay: ha accolto gli americani dritto in piedi sulle scale, kalashnikov in pugno. Prima di essere abbattuto, ha scaricato una raffica.

Il mistero della morte dì Uday e di Qusay si nasconde intorno a Nawaf al Zeidan, un capo tribù nato a Sinjarma con zii e nonni tutti di Tikrit, il regno di Saddam. Cinquant’anni, piccolo di statura, conosciuto a Mosul come uomo d’affari (in realtà nessuno sa cosa fa), le voci più attendibili spiegano che lo sceicco avrebbe accettato di ospitare i figli del dittatore proprio per «venderli» agli americani. E non tanto e non solo per quelle due taglie da 15 milioni di dollari l’una. Ma per onore e per vendetta. Per l’affronto subito da Saddam l’estate scorsa, una vergogna per la famiglia, il fratello Salah arrestato per sei mesi solo per aver detto in giro di essere un cugino del raìs. Un’ostentazione che non è piaciuta al clan di Saddam, non lo consideravano poi tanto un parente stretto il fratello di quello sceicco di Mosul. Faida di tribù. O così almeno ce la raccontano. Chiunque esso sia e per qualunque ragione l’abbia fatto il «traditore» è adesso protetto dagli americani. Il resto sarà, come sempre e come in ogni angolo del mondo quando si parla di covi e di personaggi eccellenti catturati vivi o morti, materia da consegnare alla storia.

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