Da Corriere della Sera del 25/08/2003

Bomba nella città santa per assassinare ayatollah sciita in Iraq

Lotta di potere a Najaf. Il leader religioso si è salvato La Croce Rossa: «Ci ritiriamo, siamo un bersaglio»

di Lorenzo Cremonesi

BAGDAD - C'è mancato davvero molto poco perché le truppe americane non rimanessero coinvolte nell'ennesimo scontro etnico-religioso in Iraq. Ieri mattina il fallito attentato contro l'ayatollah Sayed Mohammed Said Hakim a Najaf ha però riacceso il tensioni che covano dentro la comunità sciita.

Hakim stava tornando verso l'ufficio dopo la preghiera nella moschea dedicata al celebre imam Alì quando un ordigno costruito artigianalmente con una bombola del gas azionata da un detonatore è scoppiato, uccidendo tre sue guardie del corpo e ferendo altre 10 persone, ma provocando all’imam solo pochi graffi al collo. «Grazie a Dio l'ayatollah è salvo. Pensiamo si tratti di un attentato ordito da elementi sunniti del vecchio partito Baath che vorrebbero scatenare la guerra civile tra sciiti e sunniti», si sono affrettati a dichiarare da Teheran i circoli moderati dell’Assemblea suprema per la rivoluzione islamica, guidata dal nipote dell’ayatollah ieri nel mirino (Baker al Hakim). In realtà, a Najaf sono in molti a sospettare che Hakim potrebbe essere stato vittima di una violenta ripresa del braccio di ferro tra gli sciiti in Iraq.

Sin dall'immediato dopoguerra, già a metà aprile, è stata infatti evidente la tensione per il controllo della comunità religiosa più forte del Paese (oltre il 60 per cento dei circa 25 milioni di abitanti). Alcuni imam arrivati nelle due città sante di Najaf a Karbala dall'esilio londinese erano subito stati assassinati da elementi fondamentalisti. Poi era cresciuta la guerra di potere per influenzare la Hawza, il massimo consiglio religioso composto da 4 ayatollah: Hakim, Mohammad Rozak Alì Sistani, Mohammad Ishaq Fayyad e Bashir Najafi. Tutti personaggi che, in modo più o meno convinto, sono per il momento ancora favorevoli a sostenere gli sforzi americani per normalizzare il Paese.

Ma al loro fianco crescono correnti e figure molto più estremiste. E’ il caso per esempio del giovane Moqtada Sadr, figlio di un celebre leader spirituale ucciso con altri due figli nel 1999 dalle squadracce di Saddam Hussein, che predica la necessità di fondare «un esercito islamico con 10.000 uomini armati». Sembra che alcuni suoi seguaci siano responsabili di numerose aggressioni e minacce da metà luglio a oggi, in particolare contro i fedeli di Hakim e Sistani.
Tensioni che aprono nuove incertezze sul futuro del Paese e mettono seriamente in dubbio la tesi avanzata dai portavoce americani a Bagdad, per cui le violenze si concentrerebbero quasi esclusivamente nel triangolo sunnita, compreso tra la capitale, Ramadi e Tikrit. Gli scontri degli ultimi giorni tra turcomanni e curdi nella zona di Kirkuk (Centro-Nord) vanno nello stesso senso. Tra venerdì e sabato erano segnalati una dozzina di morti. E ieri la situazione rimaneva tesissima, anche se sotto controllo, grazie alle decine di pattuglie americane chiamate a fare servizio di polizia. «Piano piano stiamo riportando la calma, anche grazie all'impiego degli oltre 50.000 poliziotti iracheni che oggi lavorano al fianco delle truppe della coalizione», affermano i portavoce Usa.

Calma solo apparente? E' la convinzione dei dirigenti della Croce Rossa internazionale che, dopo l'attentato al quartiere generale dell'Onu a Bagdad una settimana fa, ieri ha deciso di evacuare via aerea ad Amman due terzi (circa 100 operatori) del suo personale internazionale. «Sono rimasti circa 50 operatori stranieri, assieme ai 700 iracheni che ovviamente non partono», ha confermato la portavoce Nada Dumani. «Non possiamo aiutare la popolazione se noi stessi non siamo al sicuro. Purtroppo abbiamo ricevuto ripetuti avvertimenti per cui la Croce Rossa potrebbe essere un obiettivo possibile».

Ad alimentare la paura anche il dato fornito da Yanar Mohammed, leader dell’Organizzazione per la libertà delle donne, che in una manifestazione a Bagdad ha denunciato: «Dalla fine della guerra circa 400 donne sono state rapite o violentate». Finora le storie di ragazze violentate sono state bisbigliate, ma mai dettagliate o circostanziate. Le famiglie non parlano per difendere «l'onore». Si racconta di vittime violentate e poi uccise dai parenti perché non diffamassero la famiglia e il clan. Nessuna va in ospedale o alla polizia per denunciare il fatto. Il dato certo è che oggi le donne irachene, in genere, escono di casa solo se accompagnate da almeno un uomo della famiglia.

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