Da Corriere della Sera del 25/08/2003

Bagdad, il tormento delle epurazioni per esorcizzare i fantasmi del regime

Nel gioco delle vendette trasversali uccisi anche 6 professori universitari

di Gianni Riotta

BAGDAD - Chi ha ucciso il professor Mohammad al Rawi? Si muore in tanti modi quest'estate a Bagdad, per vendetta degli Ali Baba, i predoni della borsa nera, per una pallottola vagante sparata da un soldato della Coalizione, in un attentato della Jihad islamica. Ma identificare il killer entrato nello studio medico del professor al Rawi il 27 luglio, spacciandosi per un «vecchio paziente» e superando i dinieghi dei familiari, risolverebbe il giallo politico più misterioso della capitale in guerra. Al Rawi, docente di medicina e rettore dell'Università di Bagdad era, racconta la caporedattrice del quotidiano al Azzawi , signora Nada Shawkett, «un uomo dolcissimo, gentile, un apostolo che si dedicava all'insegnamento e ai suoi pazienti».

Era però membro del Baath, un gerarca del partito di Saddam Hussein: Nada si stringe nelle spalle, triste: «Altrimenti come avrebbe ottenuto quel posto? Guardi, anche io lavoravo al giornale del regime, Al Jamurya , la repubblica. Mi dettavano gli articoli, virgole comprese. Quando è stato fondato un giornale libero, Al Azzawi , il mio vecchio direttore Saad al Bazzaz, un dissidente, mi ha dato da lavorare e sa perché? Perché, da iracheno, sapeva quel che gli americani del governatore Paul Bremer non capiscono: sotto Saddam anche le brave persone dovevano chinare il capo».

Al capo ha mirato il giustiziere di al Rawi, freddandolo con un colpo di rivoltella alla tempia. Dopo il rettore la faida ha eliminato altri cinque docenti universitari, Hussam al Assad, Zahida al Ezawi, Ayoob al Hadithi, Latif al Meshadani e Sabah Mahmood. Dozzine di altri hanno ricevuto minacce, una lista di proscrizione è stata diffusa su Internet e nelle caselle postali sono state recapitate pallottole. Perché? C'è chi parla di vendetta islamica, e indica nel partito Dawa i mandanti. Chi invece di studenti furiosi perché le purghe contro i gerarchi sono tiepide, lasciando in carica i vecchi arnesi del regime. Altri, nel caldo di Bagdad, mormorano di risentimenti accademici, lavati con il sangue in una città in cui un killer costa 50 euro l'ora.

Gli studenti islamici non rimpiangono al Rawi, «era solo un barone» denuncia Nidal, occhi di fuoco e retorica secca. Il sociologo Munqith Daghir rabbrividisce: «Il processo di purga del Baath sta diventando una tragedia: 436 docenti licenziati, solo perché cattedratici. Mio figlio, alla facoltà di farmacia, dovrà laurearsi con gli assistenti. Cacciano anche gli ingegneri idraulici e i campi vanno in secca. Chieda in giro cosa vuol dire finire nelle liste di proscrizione».

Paul Bremer ha imposto un metodo semplice: tutti i funzionari devono presentare il cedolino dello stipendio. Chiunque supera il IV livello, indispensabile per entrare a far parte dei quadri del regime, viene cacciato. Altri ministri hanno cercato di persuadere Bremer che la linea dura rischia di privare la coalizione di tecnici e seminare risentimento nella società: «Un dirigente ha nove figli, come si fa a metterlo su una strada?». Nulla da fare, i Baath restano fuori.

La professoressa Wissal Najeed al Azawi, preside della facoltà di scienze politiche all'ex Università Saddam Hussein, dove si è laureato anche il figlio del raìs, Uday, aspetta la lettera di «epurazione». «Abbiamo cambiato il nome dell'Istituto in Al Nahrain , Università dei due fiumi, ma non basterà. Su un giornale ho letto che Bremer vuol fare della nostra scuola l'Università Americana. Non mi chiuderanno la bocca, io sono sedotta dalla magia del potere - e carezza, protetta dal suo velo islamico, la poltrona nello studio capiente -. Non le sembra una vergogna che il Consiglio di governo iracheno abbia scelto il 9 aprile, il giorno della caduta di Bagdad, come festa nazionale? In Italia festeggiate il 25 aprile, non l'8 settembre. Mi epureranno? Facciano, non potranno licenziare l'intero Iraq».

A Bagdad nessuno pronuncia mai il nome «Saddam Hussein». Tutti, dissidenti e gerarchi, gente del popolo e intellettuali, usano la formula «il regime passato», come in un verso rassegnato di Eduardo De Filippo. Tutti, o quasi, ammettono che «il regime passato aveva le sue colpe», «ogni giorno scaviamo una nuova fossa comune», ma anche i più filo-occidentali non nascondono l'orgoglio per le conquiste dell'Iraq. «Non ha visitato il palazzo presidenziale? Deve assolutamente farlo!», implora un funzionario in pensione, con la preoccupazione del milanese che vedesse il turista partire senza aver messo piede in Duomo. Al Rawi era espressione di questo ceto, in tasca la tessera del partito, ma attento alla salute dei cittadini.

«Al tempo del passato regime» non si faceva la coda per la benzina per oltre un'ora, né i ragazzini della borsa nera guadagnavano vendendo bidoni dieci volte più cari al litro. Se però vi fate strada fino al distributore, sotto la canicola, e chiedete «di chi è la colpa di tanto ritardo?», ecco i due Iraq in lotta affacciarsi caparbi, uno accanto all'altro. Per al Naji, un tassista con licenza statale e auto ufficiale segnata dai parafanghi arancione di prammatica, «è un disastro. Ai tempi del passato regime queste cose non accadevano. Siamo il secondo Paese produttore di petrolio e stiamo in coda per il pieno?». Per al Haeri, tassista abusivo che sotto Saddam sarebbe finito in cella, «non va tanto male, la colpa è dei sabotatori che rovinano gli oleodotti e della borsa nera. Presto li arrestano e tutto sarà ok».

Chi applaude alla morte di al Rawi e chi lo piange. Chi impreca torturandosi sotto il sole per un litro di super contro gli americani e chi contro i ladri Ali Baba... C'è di tutto a Bagdad. Un cronista straniero viene accompagnato all'Ufficio per i Diritti Civili da un anziano traduttore, al «tempo del passato regime» impiegato del Ministero dell'Informazione, centro di spionaggio per Saddam. All'ingresso, l'ex dirigente si imbatte, tra baci, abbracci, «ti ricordi?» nostalgici, in quattro sue impiegate e scoppiano insieme a ridere: «Vi occupate di diritti umani eh, chi l'avrebbe detto una volta?». «Eh sì. Adesso siamo per la libertà, ma a stipendio dimezzato».
«Siamo un Paese malato, un Paese che ha subito la corruzione morale di tre decenni di dittatura e secoli di sangue. Noi non eliminiamo i nostri leader in golpe indolori, come in Egitto, noi li sgozziamo, sventriamo, dobbiamo vederne il sangue, le viscere», spiega pacato il critico letterario Salah al Mukhtar. Padre Nadeer Dakko raccoglie l'ennesima pallottola caduta nel rovente cortile della sua parrocchia della Madonna dei Dolori e ammonisce: «Se i teppisti che vanno in giro la notte a rubare ai fratelli iracheni, o a sparare ai soldati americani, non avessero più il caos sa cosa farebbero? Si prenderebbero a rivoltellate tra di loro. La guerra civile». L'esame di coscienza per il saccheggio sfrenato della capitale sconvolge tanti: «Chiedo ai miei fedeli, che ne è della vostra morale? Scomparsa, una polla d'acqua rinsecchita nel deserto. Che ne è della solidarietà fra musulmani, cardine del nostro credo?», intona l'imam Amir Ahmed della moschea Al Kobanji. Quando alza le mani nel gesto del profeta, l'ampia tunica, candida come il turbante, cade indietro sui polsi e rivela le dita mutilate. «Finito il collegio islamico, il partito, per vendetta, mi spedì in prima linea a prendermi questa fucilata iraniana», racconta.

Ogni individuo nasconde una ferita del passato regime, ogni famiglia, ogni gruppo etnico. E il tentativo di far nascere una società civile su queste cicatrici sembra impossibile e straordinario. «I nuovi agenti penitenziari che hanno passato l'esame di riqualificazione sono pregati di recarsi al Comando domani alle ore 7. Portare con sé un quaderno, una torcia elettrica e una penna o matita. Per cortesia niente armi da fuoco». All'esame finale dei nuovi poliziotti, 30.000 in addestramento, ne mancano almeno 40.000, i soldati fanno sfilare le reclute e ricordano: «Adesso i cittadini hanno diritti. Non potete più pestarli. Capito?». Per strada un poliziotto prende a calci uno scugnizzo intraprendente, e un soldato americano, afroamericano, salta giù dal carro armato e lo ferma: «Basta così».

Un ministro della coalizione, garbato e colto gentiluomo, convoca un funzionario iracheno, esponendogli un progetto e chiedendo: «Mi dica per cortesia il suo parere in proposito». L'uomo balbetta, arrossisce, si confonde: «Il mio parere? In trent'anni di lavoro nessuno me l'aveva chiesto!».

Ecco il miracolo e la tragedia che incombono sul cielo azzurro e sulle palme impolverate di Bagdad. La popolazione vorrebbe credere nella libertà e nella fine del «passato regime». E' però troppo occupata a sfangare la vita senza acqua, luce e gas. La giornalista Nada scuote i capelli biondo cenere senza un sorriso: «Non si guadagna nulla a essere ottimisti, inutile provare».

Quando vi pare di avere finalmente trovato i semi della tolleranza, nello studio di un sociologo che ascolta gli umori del suo grande e variegato Paese, ecco che la forza violenta dell'identità torna ad aggredire: «Io lavoro con gli americani, parlo inglese, uso metodologie di ricerca occidentali. Ma se mia figlia mi dicesse che vuole andare a studiare in America, e diventare americana, la sgozzerei con le mie mani», e leva le palme delle mani, più avvezze alla tastiera del personal computer che non al coltello del macellaio, in un gesto identico, ma dalla morale opposta a quella dell'imam Amir. Majid al Ghazali, primo violino dell'Orchestra sinfonica di Bagdad torna dal concerto di debutto a Sulaymania e vi offre fichi, uva e tè: vi aspettereste una nota di entusiasmo, invece: «Attendo che se ne vadano gli occupanti».

Al comando americano il maggiore Walden ha più l'aria della professoressa che deve compilare l'orario scolastico che non il tono marziale della guerriera. Infatti elenca come meriti dei suoi commilitoni «le palestre riattivate, le piscine riaperte, i cinema restaurati in campagna, la derattizzazione dei villaggi, la battaglia contro le zanzare nelle paludi...». Un elenco di modeste conquiste civili che sembrano innocue davanti alle stragi, agli agguati, ai disordini. E se invece da questa collaborazione, suffragata dall'Onu dopo la devastazione del quartier generale, passasse la pace?

I due Iraq, quello devastato dal «regime precedente» e quello che ancora non sa nascere dopo la caduta di Saddam, convivono in modo assurdo al vecchio comando del Mukhabarat, la polizia segreta del regime. La palazzina, dove si entrava solo per morire o essere torturati, è guardata a vista da un ragazzino dell'Alleanza Monarchica, armato di mitragliatore. L'ufficio è devastato dalle bombe dell'aviazione e la polvere cancerogena di asbesto cade mortale sui dossier che si disseccano al vento: sono gli elenchi dei curdi schedati, giustiziati, seviziati, incarcerati. Rottami, calcinacci e amianto non tengono lontana la folla dei questuanti, in coda per un lavoro, un favore, una raccomandazione dell'aspirante ministro Nabil al Jalabi. Alla fine al Jalabi dà fuori di matto, infila un pistolone alla cintura, accende il telefono satellitare Thuraya, lo scettro del potere a Bagdad occupata, e a grandi passi si isola tra le macerie del «passato regime».

In un angolo due soldati americani ripassano al computer lo spot di propaganda per la loro Divisione, concluso da due foto, militi in bianco e nero che nel 1945 sventolano una bandiera nazista conquistata a Berlino e militi a colori che, nel 2003, sventolano un vessillo iracheno preso a Bagdad. «Vedi? Ci considerano nazisti»: la gaffe offende gli iracheni presenti, che sbirciano di soppiatto il video e mormorano scontenti. Basta poco a rovinare gli sforzi del maggiore Walden. «Ci voleva una foto del passato regime, non la bandiera di cui noi iracheni siamo fieri».

Solo un uomo potrebbe risolvere la matassa feroce di aspirazioni e odio. Un uomo che nessun iracheno ha mai visto in volto, e che regola la vita di 25 milioni di ex sudditi del «passato regime»: Paul Bremer III, il governatore Usa. A lui tocca riportare la pace, la democrazia, il petrolio, l'ordine e perfino catturare i killer di al Rawi, «che peserà sulla nostra storia quanto sulla vostra l'omicidio del filosofo Giovanni Gentile», pronostica solenne un amico iracheno.

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