Da La Repubblica del 13/07/2003

Falluja, città-ribelle irachena “Uccideremo tutti i marines”

di Attilio Bolzoni

FALLUJA – Scivolano silenziosi sulla riva del fiume. Poi sparano e fuggono. Si nascondono tra le palme e gli orti, trovano riparo in quel labirinto di pietra e fango che è la città di Falluja, cinquanta moschee, un minareto che svetta in ogni quartiere, un rifugio sicuro in ogni casa dei duecentomila iracheni che sopravvivono sulle sponde dell’Eufrate. Sparano di giorno e sparano di notte. Sono imprendibili.

Qualcuno dice che sono i vecchi amici di Saddam, i suoi feddayn. Qualcun altro che sono fondamentalisti, forse anche gli estremisti sciiti. Chiunque essi siano non vogliono i soldati americani nelle loro piazze. Li vogliono cacciare a colpi di granate Rpg. Sono i nuovi guerriglieri dell’Iraq. E questa città bagnata dal suo fiume azzurrissimo che scorre lento verso il Golfo Arabico è diventata la loro roccaforte, la capitale di quella che qui già chiamano «la resistenza». Mentre in Iraq i marines continuano a morire.

Ieri un soldato americano è rimasto ucciso da un colpo di arma da fuoco a nord della capitale irachena. Le prime informazioni parlano di «circostanze accidentali». Un portavoce militare statunitense ha spiegato che l’incidente non è avvenuto in una situazione di combattimento. Il militare, che apparteneva alla Quarta divisione di fanteria, era stato ricoverato in un ospedale da campo, dove è deceduto in seguito alle ferite riportate.

Sulla strada che porta a Ramadi c’è un ponte stretto dove ogni sera si piazza un carro armato, i marines puntano verso le palme e poi aspettano la granata Rpg. Che arriva sempre. Una fiammata, un minuto o due di fuoco incrociato per un bilancio tragico che nessuno farà mai. La caccia agli aggressori con il lancia-granate spesso neanche comincia: gli americani non si avventurano di notte oltre il fiume. I guerriglieri spariscono nel palmeto e un attimo dopo vengono inghiottiti nel ventre di Falluja. Sono protetti dai contadini che coltivano meloni intorno alla Sad Uday, la diga che ha ancora il nome del primo figlio del raìs. Sono protetti dalle gente di Al Rasafa e di Al Mutasam, vicoli che si incrociano, cortili che entrano in altri cortili, passaggi stretti che solo gli abitanti del luogo conoscono. Il quotidiano Al Manar scrive oggi che «ci sono ogni giorno tra i 10 e i 25 attentati». E ce n’è almeno uno sempre a Falluja.
Abbiamo attraversato la città intorno alle undici del mattino. E ci siamo fermati sul ponte. C’è un testimone che vede ogni notte quelle fiammate e sente quei botti. E’ un ragazzo che vive in una capanna, vende lattine di aranciata e sigarette, uova e un po' di benzina di contrabbando.
Si chiama Muhamed Aldulemi e ha diciassette anni. Ci racconta di ieri sera: «Hanno sparato di là...». E indica le palme. Ci racconta anche degli americani: «Fanno bene a ucciderli, ci hanno occupato ma prima o poi tornerà Saddam».

Entriamo nella medina, il centro della città. Avevano detto che i soldati se ne erano andati dopo i primi tumulti dell’altra settimana, proteste, manifestazioni contro «il cane Bush», perfino un corteo di poliziotti, che da quando sono arrivati i marines girano disarmati. E invece gli americani sono ancora dentro Falluja, acquartierati in una palazzina bassa dove prima della caduta del regime c’era l’ufficio del catasto. Escono a tutta velocità i blindati che scorrazzano per la città. Sfrecciano per un quarto d’ora, poi si fermano di colpo, scendono in dieci o in venti con i mitra spianati, fanno irruzione, perquisiscono, arrestano.
Retata al ristorante “Zarzur” davanti a mille occhi. Intorno imprecavano a voce bassa. Diceva Khazal, che è uno studente universitario: «Fin quando non se ne andranno ci sarà sempre qualcuno che continuerà a sparare». Diceva Sadoon, che fa il contadino: «Entrano nelle nostre case e non rispettano né donne né bambini, si sono presentati come liberatori ma ci puntano sempre la canna del fucile contro». Diceva Muslim, che compra e vende auto: «Gli americani stanno facendo di tutto per diventare nostri nemici».

Sulla strada che ci riporta a Bagdad c’è la moschea Hadhra Al Muhamadia, la piazza di Maometto. L’imam Husham Abdul Karim prima parla di pace, poi mostra anche lui risentimento contro gli americani. «Ci trattano senza rispetto». Avverte: «Ogni tanto chiudo gli occhi e immagino il mio Iraq come un leone. La testa è a ovest, la pancia verso l’Arabia Saudita, la schiena verso l’Iran, la coda verso il Golfo. Se poi ci metto gli occhi, uno è a Mosul e l’altro Kirkuk, il cuore a Bagdad e la barba a Samarrah, allora dico che è proprio un leone e un leone non accetterà mai di aver occupato il suo territorio». Voci da Falluja, città irachena che già sogna l'insurrezione.

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