Da La Repubblica del 13/07/2003

È il mercato la salvezza dell’Iraq

di Raghuran Rajan, Luigi Zingales

UNO degli obiettivi del recente conflitto iracheno era costruire una democrazia di mercato che potesse fungere da esempio per il Medio oriente. Anche se il cammino in tale direzione ha subito intralci per questioni pratiche come ristabilire la legalità e l’ordine, la coalizione dovrà alla fine assumersene il compito. Quando lo farà, si troverà anche ad affrontare il dato di fatto che il potere economico oggi in Iraq è distribuito in modo tale da non condurre alla democrazia o ai mercati, e che le amministrazioni esterne ad interim tendono a peggiorare ulteriormente le cose.

Partiamo dalla distribuzione del potere economico. Anni di dittatura e sanzioni hanno decimato la classe imprenditoriale e professionale irachena. Secondo le stime il reddito di più del 60% degli iracheni dipende dal governo, il quale nel futuro prevedibile ricaverà il grosso delle sue entrate dal petrolio. Ma quando una risorsa agevolmente estraibile e controllata dal governo rappresenta una vasta quota del prodotto nazionale, la democrazia può soffrirne.

Prendiamo il Venezuela. Il governo di Hugo Chavez si è trovato a fronteggiare uno sciopero di ampie dimensioni che non voleva essere solo dimostrazione di opposizione popolare ma mirava ad affamare il governo. In assenza di introiti un governo simile si trova nell’impossibilità di pagare l’esercito o i malviventi che lo mantengono al potere. Chavez sembrava destinato a cadere, ma è stato salvato dal petrolio. Per estrarre il greggio bastano poche braccia. Con l’aiuto di alcuni ingegneri fedeli (nonché stranieri) e un numero sufficiente di nuovi assunti a rimpiazzare i lavoratori in sciopero, il governo ha mantenuto attiva la produzione di petrolio assicurandosi le risorse necessarie a garantirsi la fedeltà di forze mercenarie che sarebbero altrimenti passate all’opposizione. Lo sciopero è giunto quasi al termine e ora il governo di Chavez sta prendendo provvedimenti contro gli organizzatori.

Lo stesso avveniva sotto Saddam Hussein. Anche se oggi il dittatore è stato deposto che osa impedisce ad un nuovo regime di usare il potere derivante dal petrolio per opprimere il popolo iracheno? La democrazia è stabile solo se si accompagna ad un’ampia diffusione del potere economico tale da permettere alla cittadinanza di impedire che un governo diventi arbitrario e tirannico.

Le condizioni in cui la democrazia è fiorente sono le stesse in cui prospera il libero mercato. Quando la gente non ha timore che un governo rapace espropri le sue ricchezze e quando un’elite che deve al governo il proprio successo non determina le regole di mercato, si aprono gradualmente opportunità per tutti.

Come costruire allora la base economica per una democrazia stabile nell’Iraq del dopo guerra? La politica perseguita con parziale successo in Giappone da Douglas McArthur dopo la seconda guerra mondiale ci offre qualche lume. Il Giappone era forse più semplice da trasformare, perché non abbondava di risorse naturali agevolmente estraibili. Ma le proprietà terriere erano concentrate in poche mani e alcuni grandi gruppi, chiamati “Zaibatsu” detenevano il potere industriale. MacArthur sferrò un attacco alle concentrazioni di potere economico partendo dal presupposto che i latifondisti e le grandi imprese finissero per divenire pedine del governo. Alcuni propongono di affrontare il “problema” del petrolio iracheno distribuendo azioni della compagnia petrolifera statale alla popolazione, ma non è una soluzione. Sarà sempre il governo infatti a controllare gli introiti derivanti dal petrolio e a determinare i dividendi.

In assenza di una gestione adeguata, il ricavato del petrolio sarà sperperato in progetti faraonici, corruzione o riarmo. Anche se l’industria petrolifera di proprietà governativa venisse frazionata e privatizzata, a vantaggio di imprese straniere o meno, non c’è garanzia che un qualche governo in futuro non ne riacquisti il controllo.
La maggiore speranza di stabilire una democrazia di mercato durevole in paesi come l’Iraq sta nel bilanciare il potere statale attribuendo potere economico ai professionisti e agli imprenditori, che abbondano in Iraq, benché decimati da anni di sanzioni. Tra le priorità di qualunque amministrazione ad interim deve rientrare il reintegro e il miglioramento delle istituzioni educative e sanitarie consentendo loro di recuperare terreno.

Un’ulteriore priorità è svezzare la cittadinanza dalla dipendenza dal governo. La ricostruzione potrebbe rivitalizzare le classi imprenditoriali se venissero offerte opportunità alla piccola impresa.
Il rischio è che l’amministrazione ad interim assegni gli appalti a imprese con i contatti giusti a Washington o alla ricca elite occidentalizzata di Baghdad che va a braccetto con qualunque governo al potere. Come mostra la recente esperienza russa creare un’oligarchia imprenditoriale di leccapiedi politici allontana la prospettiva di una democrazia di mercato.

Molto più saggio è procedere ad un’ampia distribuzione degli appalti e far sì che un numero maggiore di imprese irachene abbia accesso al credito. Chiaramente molti vecchi istituti di finanziamento sono compromessi. La soluzione più semplice è consentire l’ingresso di imprese straniere che portino capitale estero in imprese private nazionali.

Tutto questo non avverrà dalla sera alla mattina. Occorre costruire, sanare e rafforzare le istituzioni economiche. L’amministrazione ad interim dovrà intraprendere una delicata azione di equilibrio. Si dovrà impedire agli iracheni di scegliere chili governerà fino a che non saranno stabilite le condizioni economiche preliminari affinché tale scelta sia davvero libera. Allo stesso tempo bisogna convincere gli iracheni che l’amministrazione ad interim ha a cuore i loro interessi piuttosto che quelli delle imprese americane o britanniche. Per avere successo questa azione di equilibrio necessita di una leadership, di politiche trasparenti e di una buona comunicazione. L’America fornì tutto questo all’Europa e al Giappone del dopoguerra. Deve nuovamente affrontare la sfida.

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