Da Corriere della Sera del 25/07/2003
Parigi cambia le pensioni e ora stringe sulla sanità
Il Parlamento ha approvato la riforma della previdenza
di Massimo Nava
PARIGI - L'asse franco-tedesco, formula di uso corrente per indicare l'intesa fra Parigi e Berlino nei rapporti europei e internazionali, ha una sua efficace versione nella politica interna dei due Paesi. Ciò che succede su una riva del Reno rimbomba immediatamente sull'altra, suscitando reciproche smanie d'imitazione sul terreno delle riforme strutturali che finiscono per azzerare, come sulla scena internazionale, le differenze di maggioranza politica e di modello statuale. Volontà politica e deficit pubblico sono fattori più decisivi del colore del governo, dimostrando che il buon senso non è di destra o di sinistra.
Ieri, in Francia, la riforma delle pensioni è stata finalmente approvata dall'Assemblea nazionale e dal Senato, ma da giorni l'attenzione dell'opinione pubblica e del governo è puntata sulla riforma della sanità attuata dal cancelliere Schröder, ampiamente enfatizzata sulle prime pagine dei giornali e messa a confronto con lo spaventoso costo del pur efficace modello francese: 158 miliardi di euro nel 2002, 2.579 euro per abitante, il doppio che nel 1990, il 10,4% del Prodotto interno lordo, «rosso» previsto di 30 miliardi nel 2004.
Situazione ritenuta insostenibile, anche perché i francesi, nonostante record di vacanze, buona tavola e art de vivre , sono divoratori di medicinali e l'ipocondria è dimostrata dalla densità di farmacie sul territorio.
La riforma, timidamente avviata già in questi giorni, con il taglio di medicinali rimborsabili, è in calendario dopo le ferie, assieme a quelle della scuola, del decentramento statale e delle imprese pubbliche. La riforma di Schröder, per di più sostenuta dalle opposizioni tedesche, è studiata con attenzione, nel metodo e nel merito, dal governo di centrodestra di Jean Pierre Raffarin, il quale vorrebbe evitare un autunno caldo, dopo una primavera infuocata nelle piazze e all'Assemblea. Il provvedimento sulle pensioni è costato un milione di ore di sciopero, 157 ore di dibattito parlamentare (secondo tempo assoluto nella storia repubblicana), 11 mila emendamenti.
E' vero che Raffarin e il ministro degli affari sociali, François Fillon, passeranno alla storia francese per aver disarticolato il luogo comune del Paese non riformabile, bloccato dai veti incrociati, aggrappato come una cozza al modello di Stato mamma.
E' vero che il governo, forte di una solida maggioranza, ha mantenuto un impegno elettorale arrivando dove si erano arenati tutti i predecessori. Ma è anche vero che le ferite sociali non sono facilmente rimarginabili, dato che partiti e sindacati vengono spesso scavalcati da una base massimalista e protestataria.
Nonostante la soddisfazione per il successo personale, Raffarin e Fillon hanno quindi preferito riaffermare ieri volontà di dialogo e passi felpati, con un occhio al metodo berlinese: «Non è la vittoria di un campo sull'altro», «Abbiamo dimostrato che in Francia il cambiamento è possibile».
Un atteggiamento concordato con il presidente Jacques Chirac, il quale, nella tradizionale intervista del 14 luglio, aveva insistito sul dialogo per riformare il Paese. Proprio sulla sanità, il presidente ha mostrato proverbiale propensione al consenso sociale, con una formula ambigua : «Il nostro sistema è buono e non va riformato. Si tratta di responsabilizzare gli attori, eliminare sprechi, migliorare la gestione, introdurre una copertura assicurativa complementare». In altre parole, fare una riforma.
In fondo, anche quella della «retrait», più che una rivoluzione, è considerata un'evoluzione del rapporto economia e demografia, che riduce automatismi e privilegi, mantenendo i valori delle pensioni più deboli. In sintesi, prevede di parificare il settore pubblico e quello privato sulla base di 40 anni di contributi e di elevare a 65 anni l'età pensionabile. Entro il 2020 i contributi saranno calcolati sulla base di 42 anni. La sinistra e una parte dei sindacati, che non guardano a Schröder, accusano il governo di smantellare lo Stato sociale. La confindustria, che guarda alla Thatcher, sostiene che le riforme sono poco coraggiose.
L'applicazione di quella delle pensioni, che accoglie le raccomandazioni di Chirac, sarà ancora sottomessa a negoziati e dovrà essere in parte finanziata.
Qualcuno la definisce riforma mobile, molto dipendente da crescita economica e disavanzo pubblico dei prossimi anni. Anche rispetto a queste due variabili, e all'allentamento dei rigori di Maastricht, tedeschi e francesi non sono mai stati così vicini.
Riformisti, ma in coda all'Europa.
Ieri, in Francia, la riforma delle pensioni è stata finalmente approvata dall'Assemblea nazionale e dal Senato, ma da giorni l'attenzione dell'opinione pubblica e del governo è puntata sulla riforma della sanità attuata dal cancelliere Schröder, ampiamente enfatizzata sulle prime pagine dei giornali e messa a confronto con lo spaventoso costo del pur efficace modello francese: 158 miliardi di euro nel 2002, 2.579 euro per abitante, il doppio che nel 1990, il 10,4% del Prodotto interno lordo, «rosso» previsto di 30 miliardi nel 2004.
Situazione ritenuta insostenibile, anche perché i francesi, nonostante record di vacanze, buona tavola e art de vivre , sono divoratori di medicinali e l'ipocondria è dimostrata dalla densità di farmacie sul territorio.
La riforma, timidamente avviata già in questi giorni, con il taglio di medicinali rimborsabili, è in calendario dopo le ferie, assieme a quelle della scuola, del decentramento statale e delle imprese pubbliche. La riforma di Schröder, per di più sostenuta dalle opposizioni tedesche, è studiata con attenzione, nel metodo e nel merito, dal governo di centrodestra di Jean Pierre Raffarin, il quale vorrebbe evitare un autunno caldo, dopo una primavera infuocata nelle piazze e all'Assemblea. Il provvedimento sulle pensioni è costato un milione di ore di sciopero, 157 ore di dibattito parlamentare (secondo tempo assoluto nella storia repubblicana), 11 mila emendamenti.
E' vero che Raffarin e il ministro degli affari sociali, François Fillon, passeranno alla storia francese per aver disarticolato il luogo comune del Paese non riformabile, bloccato dai veti incrociati, aggrappato come una cozza al modello di Stato mamma.
E' vero che il governo, forte di una solida maggioranza, ha mantenuto un impegno elettorale arrivando dove si erano arenati tutti i predecessori. Ma è anche vero che le ferite sociali non sono facilmente rimarginabili, dato che partiti e sindacati vengono spesso scavalcati da una base massimalista e protestataria.
Nonostante la soddisfazione per il successo personale, Raffarin e Fillon hanno quindi preferito riaffermare ieri volontà di dialogo e passi felpati, con un occhio al metodo berlinese: «Non è la vittoria di un campo sull'altro», «Abbiamo dimostrato che in Francia il cambiamento è possibile».
Un atteggiamento concordato con il presidente Jacques Chirac, il quale, nella tradizionale intervista del 14 luglio, aveva insistito sul dialogo per riformare il Paese. Proprio sulla sanità, il presidente ha mostrato proverbiale propensione al consenso sociale, con una formula ambigua : «Il nostro sistema è buono e non va riformato. Si tratta di responsabilizzare gli attori, eliminare sprechi, migliorare la gestione, introdurre una copertura assicurativa complementare». In altre parole, fare una riforma.
In fondo, anche quella della «retrait», più che una rivoluzione, è considerata un'evoluzione del rapporto economia e demografia, che riduce automatismi e privilegi, mantenendo i valori delle pensioni più deboli. In sintesi, prevede di parificare il settore pubblico e quello privato sulla base di 40 anni di contributi e di elevare a 65 anni l'età pensionabile. Entro il 2020 i contributi saranno calcolati sulla base di 42 anni. La sinistra e una parte dei sindacati, che non guardano a Schröder, accusano il governo di smantellare lo Stato sociale. La confindustria, che guarda alla Thatcher, sostiene che le riforme sono poco coraggiose.
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