Da Corriere della Sera del 25/07/2003

Vinti, non martiri, ma l'America ha un dubbio

di Gianni Riotta

Le foto che mostrano i volti rassegnati di Uday e Qusay Hussein, barbe incolte, ferite e grumi di sangue, il petto nudo, la bocca dischiusa con i denti a biancheggiare, susciteranno tra la gente di Bagdad la convinzione che non c’è nulla da fare e il regime è morto, o c’è il rischio che paradossalmente i crudeli figli di Saddam siano sublimati in martiri? E’ la piazzale Loreto del partito Baath, la fine di ogni illusione, come per i gerarchi fascisti nel 1945 a Milano, o la nascita di un improbabile mito? La foto del Che Guevara, riverso alla Cristo di Mantegna, fece da battesimo al culto per il capo guerrigliero nel 1967. La Casa Bianca ha meditato se rendere pubbliche le foto prese dopo il raid di Mossul e ha prevalso il consiglio di chi ritiene che troppi iracheni sono ancora terrorizzati dal clan degli Hussein. Il linguaggio della forza è esperanto universale e le foto grottesche dei fratelli, come i teschi dei briganti ripresi in seppia durante la repressione seguita all’Unità d’Italia, parlano senza parafrasi di vincitori e vinti.

Funzionerà? La rete tv Al Arabiya ha diffuso le immagini di guerriglieri feddayn di Saddam che giurano vendetta sui corpi di Usay e Quday. Il network Al Jazira lamenta i diritti violati. La studiosa Sandra Mackey teme che nelle città islamiche il blitz di Mossul diventi leggenda, ferocia americana contro coraggio iracheno. Il New York Times si riempie di lettere di protesta. «Sbagliato massacrarli senza processo» scrive Andy Cox da San Francisco, «che ingenuità, abbiamo creato due martiri» paventa Bea Jones dalla Carolina del Sud, «Siamo americani, non dobbiamo godere della morte» sostiene Clifton Beoid dalla Louisiana. Sulla rete Cnn un ex dirigente Cia mastica: «Meglio prenderli vivi che esporli morti».

L’esibizione del corpo dei caduti rappresenta per i vincitori la parata trionfale, ma chiama gli sconfitti alla resistenza. Nell’ Iliade , Achille torna in combattimento sconvolto dal cadavere di Patroclo, uccide in duello Ettore, lega al suo carro l’eroe troiano e lo trascina attorno alle mura. Lo storico Sergio Luzzatto ha dedicato anni di lavoro al valore simbolico condensato nel cadavere di un leader. Ne «Il corpo del Duce» ha raccontato la vicenda di Benito Mussolini, giustiziato, esposto a piazzale Loreto e sotterrato senza onori, la cui salma viene però trafugata, ritrovata, ancora seppellita e infine riesumata e traslata a Predappio per i pellegrinaggi neofascisti.

Giuseppe Mazzini muore l’11 marzo del 1872, avvolto nello scialle che fu di Carlo Cattaneo. I suoi seguaci decidono di farlo imbalsamare. I re hanno il loro Pantheon? E il corpo dell’apostolo della Repubblica verrà «pietrificato» dal praticone Pietro Gorini, uno stregone che esibisce il piedino di un bimbo marmorizzato.

Mazzini avrebbe preferito essere cremato senza cerimonie, come chiedeva anche Mao Tse Tung. Inutile, la politica ha bisogno di reliquie, quella di Mao esibita a Pechino, quella di Mazzini, sfigurata dal Gorini e tumulata al cimitero genovese di Staglieno, sancta sanctorum laico (la saga completa ne «La mummia della Repubblica», secondo volume del Luzzatto).

Il corpo di Aldo Moro, giustiziato dagli aguzzini delle Brigate Rosse nella umile Renault R4 rossa, segnò la fine di ogni simpatia per i killer di Mario Moretti. Quando il settimanale L’Europeo pubblicò le foto dell’autopsia di Moro, con la carne segnata dai fori delle pallottole, l’impressione fu enorme. Il modello dei feddayn che chiamano «martiri» Uday e Qusay è però soprattutto la mischia trentennale intorno al corpo del Che Guevara. Secondo la ricostruzione del National Security Archive americano, il Che fu catturato e ucciso il 9 ottobre del 1967 da Ranger boliviani coordinati da agenti Cia. Tre giorni dopo il generale Ovando disse: «Guevara è stato cremato», per non creare il mausoleo di un martire. Il 14 le mani del Che vennero amputate per controllarne le impronte digitali contro il campione depositato presso gli archivi argentini di La Paz, numero 3.524.272. Il corpo del guerrigliero scomparve nel nulla, fin quando il giornalista Jon Lee Anderson apprese dal generale Mario Vargas Salinas che il Che era stato seppellito in una fossa comune, nei pressi del campo di aviazione di Vallegrande. Il cadavere, mutilato delle mani, venne infine riesumato e traslato a Cuba, con un grande funerale, nell’ottobre del 1997.

I resti mortali di Uday e Qusay, il primogenito sadico e irresponsabile, il secondogenito metodico e cinico, diventano adesso battaglia simbolica nella guerra senza fine dell’Iraq. I feddayn proveranno a fare di quei volti tumefatti il manifesto della resistenza Baath, gli americani il bando con il monito «arrendersi o perire», che scoraggi i ribelli.

Contendersi i morti serve a poco nella storia. Achille restituì commosso a Priamo il cadavere del figlio Ettore che aveva oltraggiato.

Il culto del corpo umiliato del Duce restò catacombale nell’Italia democratica. La pietrificazione di Mazzini non bastò contro l’egemonia monarchica. Il volto del Che promuove tee shirt, sigari e settimane vacanze, l’America Latina sogna democrazia, non più «revolución». Le spoglie dei figli di Saddam Hussein, private del potere, chiuse le camere di tortura, lontani i salamelecchi dei sicofanti e le notti di lussuria con odalische spaventate, mostrano due uomini perduti. Gli americani pacificheranno l’Iraq non con le istantanee di mascelle digrignate, ma con scuole, acqua, sicurezza e lavoro. Davanti alla sorte dei due delfini senza cuore è giusto provare pietà, come per i tre anonimi soldati della 101esima uccisi ieri per «vendetta». La guerra continua.

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