Da Famiglia cristiana del 29/06/2003

Da 20 anni in guerra

Una speranza per il Sudan

Uno dei più feroci conflitti del continente sta (forse) per finire. dopo il "cessate il fuoco", parla il leader storico dei ribelli, Garang.

di Gino Barsella, Luciano Scalettari

È la più lunga guerra d'Africa, e una delle più feroci: 20 anni di conflitto, oltre due milioni di morti, quattro e mezzo di profughi.
La guerra civile del Sudan era scoppiata per la decisione dell'allora dittatore Nimeiri di estendere la sharia, la legge islamica, in tutto il Paese. Una guerra etnico-religiosa, nella quale si scontravano il Nord arabo e musulmano e il Sud africano e animista-cristiano. Ma negli anni le ragioni per combattere sono cambiate: la questione etnico-religiosa è passata in secondo piano da quando è cresciuto l'interesse per le risorse naturali e il petrolio del Paese, collocati in gran parte nel Sud, proprio nelle aree occupate dai ribelli.
Vent'anni d'inferno, per i sudanesi, nell'oblio più completo da parte della comunità internazionale: bombardamenti a tappeto sui villaggi; riduzione in schiavitù di centinaia di migliaia di civili del Sud; arruolamento forzato di schiere di bambini soldato tra i ribelli; carestie che, in assenza di aiuti umanitari, hanno decimato la popolazione.
Ora qualcosa è cambiato. La pressione internazionale per la pacificazione del Paese è forte, ma sembra motivata più dagli appetiti per i giacimenti che dallo scandalo di uno sterminio ventennale. Fatto sta che, dopo una lunga e faticosa trattativa, la pace sembra più vicina. Il Governo di Omar el Bashir e l'Splm (Movimento popolare di liberazione sudanese) hanno firmato nell'ottobre scorso il "cessate il fuoco".
La tregua regge, e alcuni punti importanti sono stati sottoscritti: ci saranno una nuova Costituzione e un Governo di transizione per sei anni; poi il Sud avrà diritto a votare per l'autodeterminazione. C'è disaccordo, invece, su questioni altrettanto cruciali: ad esempio, la composizione dell'esercito; la presenza di una forza d'interposizione; la divisione dei proventi del petrolio (il Governo vuole lasciarne al Sud solo il 10 per cento, l'Splm ne vuole il 60).

LA CORSA ALL'ORO NERO È INIZIATA
Usa e Unione europea, però, hanno fretta: in cambio della pace hanno promesso ingenti aiuti economici. Intanto, la corsa all'oro nero del Sudan è già iniziata: è attiro il primo oleodotto e hanno ottenuto concessioni 12 compagnie petrolifere. Non solo. Dove le perforazioni sono state avviate, le associazioni dei diritti umani hanno segnalato violazioni. Interi villaggi sono stati spazzati via per far posto alle trivelle. Le accuse più pesanti sono contro la Talisman Energy, la compagnia canadese che l'anno scorso ha deciso di abbandonare il Sudan e rivendere le sue concessioni.
Il leader dell'Splm, John Garang, in questi giorni è stato in Italia per una fitta serie di incontri. «Per primo abbiamo incontrato il Papa», dice in questa intervista esclusiva, «per esprimergli gratitudine per l'importante contributo, anche critico, delle Chiese e l'impegno dei missionari a fianco della gente in Sudan».
John Garang da 20 anni è il capo storico del movimento di liberazione. Fu lui, al comando della sua guarnigione, a decretare l'inizio della guerra, nel 1983, lasciando la caserma di Bor, nel Sud Sudan, e avviando la ribellione contro l'imposizione della legge islamica.
Garang è stato accusato di essere un despota e di violare a sua volta i diritti umani. Lui nega, e risponde di aver scelto la guerra per costruire un «nuovo Sudan democratico, pluralista e giusto per tutti». Di sicuro ha bloccato il progetto di Khartoum di arabizzazione e islamizzazione totale del Paese. Garang, oltre all'Italia, ha visitato Egitto, Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda per contatti bilaterali in vista dei negoziati.

Bush potrebbe arrivare in Kenya, a luglio, per la firma dell'accordo...
«Quando firmeremo non lo so, ma prima succede meglio è. Tuttavia, il Governo sudanese deve accettare completamente ciò che ha firmato a Machakos, in Kenya. Noi abbiamo fatto i nostri passi verso il compromesso. Abbiamo accettato un periodo di transizione di sei anni piuttosto che i 18 mesi da noi auspicati. Volevamo un Sudan assolutamente aconfessionale e, invece, durante la transizione il Nord manterrà una costituzione islamica. Adesso tocca a Khartoum. Manca l'accordo su questioni come la composizione dell'esercito, l'autonomia delle tre aree marginalizzate del Nord, la condivisione del potere e delle risorse, specie il petrolio».

Ma gli Usa si fidano di Khartoum...
«I1 Governo collabora con gli Stati Uniti perché conosce il terrorismo internazionale. Gli americani sono liberi di fare le loro scelte. Ma la loro nuova "simpatia" verso il Governo dipende anche da fattori politici ed economici. In realtà, in Sudan, il terrorismo domestico e regionale continua».

Regge il "cessate il fuoco"?
«Ci sono sei fronti aperti: le tre regioni del Sud, i monti Nuba, il Southern Blue Nile e l'Est del Paese. Ma non si combatte grazie alla tregua. Solo nell'area petrolifera, l'Upper Nile, il Governo viola i patti. Più di 100.000 persone sono dovute fuggire, perché le compagnie cinesi e malesi possano sfruttare i giacimenti. Sui monti Nuba, invece, la tregua ha permesso l'arrivo degli aiuti».

Quella sudanese si può definire una "guerra di religione"?
«Quella religiosa è una componente, insieme alla marginalizzazione politica ed economica. Gruppi estremisti come il Fronte nazionale islamico fanno un uso strumentale della religione per ragioni politiche, causando intolleranza».

Anche voi siete stati accusati di violare i diritti umani...
«Non abbiamo ragioni per uccidere la nostra gente. Ci siamo ribellati proprio a causa delle violazioni dei diritti umani e per la giustizia. Un esempio? I prigionieri di guerra. Il Governo non ne
ha, noi ne abbiamo migliaia, segno che non li uccidiamo, e molti sono stati rilasciati. Ci sono casi di singoli che commettono violenze, ma questo non può criminalizzare l'intero movimento».

Avete stretto un accordo proprio col Fronte nazionale islamico. Perché?
«Il leader dell'Fni, Turabi, ha influenzato la vita politica sudanese fin dal 1983. Adesso il movimento islamista è diviso. E noi dobbiamo dialogare con tutte le forze politiche, etniche e religiose, per far convivere le differenze. Il pluralismo è la caratteristica del Sudan e la base su cui costruire la pace».

Come gestire il rientro dei profughi?
«Stanno già tornando, tantissimi. È un problema rilevante: infrastrutture da ricostruire, riabilitazione di persone e comunità. Speriamo nell'aiuto della comunità internazionale e degli organismi umanitari. A Roma abbiamo avuto molti incontri con le istituzioni, la società civile e i missionari. L'Italia gioca un ruolo importante nella pacificazione».

Le società petrolifere sono state accusate di abusi sulla popolazione...
«Dovranno risarcire i danni causati alla gente deprivata di terre e proprietà. Quella canadese, la Talisman, che ha lasciato il Sudan, è già sotto processo».

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