Da Corriere della Sera del 16/07/2003
La tv di qualità? Prenda ispirazione dagli spot
Varietà di temi, scrupolo e passione nelle trasmissioni che sono passate alla storia
di Aldo Grasso
Questo non significa che bisogna rassegnarsi e coltivare la tv senza qualità. Se torniamo a parlarne, se torniamo a pungolare i dirigenti televisivi è perché i lettori hanno reagito positivamente a questo argomento e i riscontri ottenuti non sono stati pochi. Nell'attuale programmazione, sempre più dominata dai generi che celebrano l'epopea dell'uomo comune, è quasi impossibile stabilire cosa sia qualità. L'ossessione che attraversa i programmi è fare audience e il sistema Auditel mette a dura prova i nervi degli operatori: un punto in più, o in meno, nell’ascolto viene affrontato in toni parossistici, in termini di vita o di morte.
L'ascolto è diventato l'unico metro di giudizio: se lo share è deludente, il programma rischia di essere cancellato, se lo share è gratificante, ogni nefandezza viene d'incanto giustificata, spazzatura e obbrobri vari. In questo clima, la prima a farne le spese è la qualità, come fosse un lusso che non possiamo più permetterci.
Ma la qualità non è un lusso, un di più, è semplicemente un modo di fare le cose: «Bisogna fare le piccole cose come se fossero grandi» dice la povera Adele H. ed è una delle più belle definizioni sul concetto di qualità. I vecchi direttori di produzione, ai tempi degli sceneggiati, non si stancavano mai di ripetere: «Ricordatevi che le cose fatte bene o fatte male hanno lo stesso budget, quindi conviene farle bene». La nostra tv è incapace di pensare la qualità perché non ne conosce più il fondamento stesso: la diversità. Abbiamo sette o otto reti nazionali che fanno una sola tv, appiattita e monomaniaca. E poi, per fare bene le cose, ci vuole molta passione, parola concreta che ne sottintende altre più impegnative ma astratte: professionalità, curiosità e, appunto, qualità.
A proposito di concretezza, ci permettiamo di fare alcuni esempi storici. La storia della tv italiana è piena di programmi di qualità: dai viaggi di Mario Soldati alla Grande Storia, da «Un, due, tre» di Tognazzi e Vianello a «Le inchieste del commissario Maigret», da «Studio uno» di Falqui e Sacerdoti a «Portobello» di Enzo Tortora, dall'«Orlando furioso» di Luca Ronconi alle avventure di Montalbano, all'«Infedele» di Gad Lerner. Per non parlare delle lezioni di Sgarbi, di Angela, di Daverio.
La qualità non è per forza esibizione culturale, non significa parlare di libri.
Un programma di qualità è stato «Campanile sera» che è nato per far conoscere la tv agli italiani e ha finito per far conoscere l'Italia agli italiani; qualcosa del genere oggi potrebbe essere «Passaparola», magari senza letterine, senza tanti ospiti autoreferenziali. Un programma di qualità è stato «Quelli della notte» di Renzo Arbore, la cui originalità consisteva nella contaminazione tra cliché forti e improvvisazione.
«Quelli della notte» ha chiuso con eleganza una fase storica: quella della tv fatta da veri professionisti del mondo dello spettacolo (anche se fingevano di essere dilettanti); qualcosa del genere oggi è «Stasera pago io» di Fiorello. Un programma di qualità è stato il «Processo alla tappa» di Sergio Zavoli, un grande racconto popolare attraverso le fatiche dei corridori, le emozioni più nascoste di atleti sfigurati dalla fatica; qualcosa del genere purtroppo oggi non esiste più perché lo sport è degenerato in business e con esso i suoi cantori. Un programma di qualità è stato «Sali & Tabacchi» di Pietrangelo Buttafuoco e Stefano Di Michele, un rotocalco che non viveva sull'affanno dell'attualità, anzi, si compiaceva di essere inattuale, antistorico e, intanto, si offriva come unica trasmissione culturale irridente, provocatoria, cattiva, imprevedibile; qualcosa del genere oggi è «8 e 1/2» di Giuliano Ferrara, il solo talk show dove è ancora possibile seguire un percorso di conoscenza.
Per dire che qualità è un passo avanti sulla strada del sapere o dell’emozione, è un progetto editoriale che ci strappa dalle nostre convinzioni e dai nostri luoghi comuni.
Cosa ci manca allora, visto che qualche panda della qualità esiste ancora nelle pieghe del palinsesto? Dobbiamo auspicare il ritorno alla tv pedagogica (con tutte le Accademie dello spettacolo che ci sono in giro non c'è mai stata tanta pedagogia così a buon mercato), all'«Approdo», all'idea di un servizio pubblico assillato dalla tutela dei minori? Ci vuole una patente a punti per i direttori di rete? No, basta di meno: basterebbe che la programmazione della tv generalista aspirasse a essere complessa e innovativa come gli spot che la interrompono.
L'ascolto è diventato l'unico metro di giudizio: se lo share è deludente, il programma rischia di essere cancellato, se lo share è gratificante, ogni nefandezza viene d'incanto giustificata, spazzatura e obbrobri vari. In questo clima, la prima a farne le spese è la qualità, come fosse un lusso che non possiamo più permetterci.
Ma la qualità non è un lusso, un di più, è semplicemente un modo di fare le cose: «Bisogna fare le piccole cose come se fossero grandi» dice la povera Adele H. ed è una delle più belle definizioni sul concetto di qualità. I vecchi direttori di produzione, ai tempi degli sceneggiati, non si stancavano mai di ripetere: «Ricordatevi che le cose fatte bene o fatte male hanno lo stesso budget, quindi conviene farle bene». La nostra tv è incapace di pensare la qualità perché non ne conosce più il fondamento stesso: la diversità. Abbiamo sette o otto reti nazionali che fanno una sola tv, appiattita e monomaniaca. E poi, per fare bene le cose, ci vuole molta passione, parola concreta che ne sottintende altre più impegnative ma astratte: professionalità, curiosità e, appunto, qualità.
A proposito di concretezza, ci permettiamo di fare alcuni esempi storici. La storia della tv italiana è piena di programmi di qualità: dai viaggi di Mario Soldati alla Grande Storia, da «Un, due, tre» di Tognazzi e Vianello a «Le inchieste del commissario Maigret», da «Studio uno» di Falqui e Sacerdoti a «Portobello» di Enzo Tortora, dall'«Orlando furioso» di Luca Ronconi alle avventure di Montalbano, all'«Infedele» di Gad Lerner. Per non parlare delle lezioni di Sgarbi, di Angela, di Daverio.
La qualità non è per forza esibizione culturale, non significa parlare di libri.
Un programma di qualità è stato «Campanile sera» che è nato per far conoscere la tv agli italiani e ha finito per far conoscere l'Italia agli italiani; qualcosa del genere oggi potrebbe essere «Passaparola», magari senza letterine, senza tanti ospiti autoreferenziali. Un programma di qualità è stato «Quelli della notte» di Renzo Arbore, la cui originalità consisteva nella contaminazione tra cliché forti e improvvisazione.
«Quelli della notte» ha chiuso con eleganza una fase storica: quella della tv fatta da veri professionisti del mondo dello spettacolo (anche se fingevano di essere dilettanti); qualcosa del genere oggi è «Stasera pago io» di Fiorello. Un programma di qualità è stato il «Processo alla tappa» di Sergio Zavoli, un grande racconto popolare attraverso le fatiche dei corridori, le emozioni più nascoste di atleti sfigurati dalla fatica; qualcosa del genere purtroppo oggi non esiste più perché lo sport è degenerato in business e con esso i suoi cantori. Un programma di qualità è stato «Sali & Tabacchi» di Pietrangelo Buttafuoco e Stefano Di Michele, un rotocalco che non viveva sull'affanno dell'attualità, anzi, si compiaceva di essere inattuale, antistorico e, intanto, si offriva come unica trasmissione culturale irridente, provocatoria, cattiva, imprevedibile; qualcosa del genere oggi è «8 e 1/2» di Giuliano Ferrara, il solo talk show dove è ancora possibile seguire un percorso di conoscenza.
Per dire che qualità è un passo avanti sulla strada del sapere o dell’emozione, è un progetto editoriale che ci strappa dalle nostre convinzioni e dai nostri luoghi comuni.
Cosa ci manca allora, visto che qualche panda della qualità esiste ancora nelle pieghe del palinsesto? Dobbiamo auspicare il ritorno alla tv pedagogica (con tutte le Accademie dello spettacolo che ci sono in giro non c'è mai stata tanta pedagogia così a buon mercato), all'«Approdo», all'idea di un servizio pubblico assillato dalla tutela dei minori? Ci vuole una patente a punti per i direttori di rete? No, basta di meno: basterebbe che la programmazione della tv generalista aspirasse a essere complessa e innovativa come gli spot che la interrompono.
Annotazioni − Il dibattito sulla tv di qualità è stato riaperto da Alberto Ronchey il 26 giugno sul Corriere della Sera. Molti poi gli interventi, tra cui quelli de L’Osservatore Romano.
Nel mirino è soprattutto l'Auditel per il sistema di rilevamento degli ascolti.
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