Da Corriere della Sera del 07/07/2003
Nella notte l’ultimo attacco. A Bagdad un marine ucciso da un colpo alla nuca
Iraq, granate sui soldati americani
Le email dei militari: trattati da invasori, vogliamo tornare a casa
di Ennio Caretto
WASHINGTON - E’ una ragazza dell’Oklahoma di 21 anni, fresca di luna di miele, un caporale di guardia con tre o quattro soldati più giovani di lei a un grande albergo di Bagdad. «Certo che ho paura - dice ai giornalisti senza dare il suo nome -. Ogni mattina, quando mi sveglio, tremo all’idea che mi potrebbero uccidere prima di sera. Viviamo tutti in un continuo stato di tensione, ci guardiamo sempre attorno, qualcuno può spararci». Quando pensa al marito lontano, lo stomaco della ragazza dell’Oklahoma si contrae, le vengono le lacrime agli occhi. «Soltanto la fede mi sorregge. Ogni mattina prego Dio. E’ Dio che decide se vivremo o se morremo. Sono rassegnata. Sarà Dio a dirmi: è giunto il tuo momento». La ragazza spera che la truppa venga avvicendata: «Ho nostalgia di casa».
«Ci avevano assicurato che saremmo stati accolti come liberatori - interloquisce un soldato -. Invece, ci trattano da invasori. Siamo qui per aiutarli, ma gli iracheni non ci vogliono». Un commilitone si sporge dall’ Humvee , il mezzo blindato che è divenuto il simbolo delle forze armate Usa. «Non voglio dire nulla contro questa gente, ma ci attaccano a tradimento. Sparano dai tetti quando passiamo. Vorrei che ci affrontassero apertamente, che combattessero come noi». Attorno all’ Humvee giocano alcuni bambini. Il soldato li guarda: «Non siamo mai sicuri che non siano mandati dai feddayn per distrarci. I feddayn ne approfittano per attaccarci. Si servono dei bambini!». Il soldato chiede quello che Bush non vuole ancora, l’appoggio di una forza internazionale: «Abbiamo bisogno di aiuto».
Alla tv Bbc e su qualche giornale americano i militari in Iraq si confessano. L’essere oggetto dell’ondata di violenza li spaventa, non riescono a distinguere gli amici dai nemici, il loro morale è basso.
L’ultima imboscata, nella notte di domenica: le truppe Usa sono state attaccate in un campo militare a Ramadi, 100 chilometri a ovest di Bagdad. I lanciagranate hanno colpito diversi soldati americani.
L’estate torrida, con le armi e altri pesi addosso, li consuma anche fisicamente. Uno si lamenta di svegliarsi sempre in un mare di sudore, di ricevere una sola bottiglia d’acqua al giorno, e di non avere un minimo d’aria condizionata: «cura dimagrante alla irachena», la definisce un altro parlando al New York Times e dichiarandosi esausto. In patria, le famiglie incominciano a protestare, chiedono che la truppa torni subito. In una base hanno insultato e quasi aggredito un colonnello che le esortava a pazientare. Ieri il malumore e la paura della truppa sono aumentati alla notizia di un ennesimo attentato. A Bagdad un militare che si era allontanato dai compagni è stato colpito alla nuca con una pistolettata ed è morto poche ore dopo. Per una strana coincidenza, il Washington Post ha pubblicato le foto e i nomi dei caduti dal 25 maggio al 3 luglio, una pagina di 45 volti in grande maggioranza giovanissimi sullo sfondo della bandiera a stelle e strisce, a cui negli ultimi tre giorni se ne sono aggiunti 3. In tutto, le perdite Usa in Iraq sono 207, di cui 68 dalla fine della guerra.
«Ci avevano assicurato che saremmo stati accolti come liberatori - interloquisce un soldato -. Invece, ci trattano da invasori. Siamo qui per aiutarli, ma gli iracheni non ci vogliono». Un commilitone si sporge dall’ Humvee , il mezzo blindato che è divenuto il simbolo delle forze armate Usa. «Non voglio dire nulla contro questa gente, ma ci attaccano a tradimento. Sparano dai tetti quando passiamo. Vorrei che ci affrontassero apertamente, che combattessero come noi». Attorno all’ Humvee giocano alcuni bambini. Il soldato li guarda: «Non siamo mai sicuri che non siano mandati dai feddayn per distrarci. I feddayn ne approfittano per attaccarci. Si servono dei bambini!». Il soldato chiede quello che Bush non vuole ancora, l’appoggio di una forza internazionale: «Abbiamo bisogno di aiuto».
Alla tv Bbc e su qualche giornale americano i militari in Iraq si confessano. L’essere oggetto dell’ondata di violenza li spaventa, non riescono a distinguere gli amici dai nemici, il loro morale è basso.
L’ultima imboscata, nella notte di domenica: le truppe Usa sono state attaccate in un campo militare a Ramadi, 100 chilometri a ovest di Bagdad. I lanciagranate hanno colpito diversi soldati americani.
L’estate torrida, con le armi e altri pesi addosso, li consuma anche fisicamente. Uno si lamenta di svegliarsi sempre in un mare di sudore, di ricevere una sola bottiglia d’acqua al giorno, e di non avere un minimo d’aria condizionata: «cura dimagrante alla irachena», la definisce un altro parlando al New York Times e dichiarandosi esausto. In patria, le famiglie incominciano a protestare, chiedono che la truppa torni subito. In una base hanno insultato e quasi aggredito un colonnello che le esortava a pazientare. Ieri il malumore e la paura della truppa sono aumentati alla notizia di un ennesimo attentato. A Bagdad un militare che si era allontanato dai compagni è stato colpito alla nuca con una pistolettata ed è morto poche ore dopo. Per una strana coincidenza, il Washington Post ha pubblicato le foto e i nomi dei caduti dal 25 maggio al 3 luglio, una pagina di 45 volti in grande maggioranza giovanissimi sullo sfondo della bandiera a stelle e strisce, a cui negli ultimi tre giorni se ne sono aggiunti 3. In tutto, le perdite Usa in Iraq sono 207, di cui 68 dalla fine della guerra.
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