Da Il Messaggero del 03/07/2003

E la chiamano pace

di Marcella Emiliani

CON un bilancio di 70 morti e attacchi quasi quotidiani ai soldati americani e inglesi, il minimo è chiedersi quale guerra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna abbiano vinto in Iraq. Naturalmente hanno sbarazzato il paese della dittatura di Saddam Hussein, ma di giorno in giorno risulta evidente che per il dopo-Saddam non era stata pianificata nessuna soluzione in grado di garantire le uniche due cose necessarie ad una ricostruzione politica ed economica: la sicurezza e un minimo di "governo delle cose", cioè i servizi più elementari (acqua, elettricità, ospedali, rifornimenti alimentari). E tra i servizi più elementari ci mettiamo anche l'investitura di responsabili per l'amministrazione della giustizia, piccola o grande che sia.
Nessuno ha saputo disarmare le "fazioni ostili" ma neanche dirci quali e quante siano; nessuno ha protetto gli oleodotti che infatti sono diventati bersaglio di attentati; nessuno ha bloccato frontiere bollenti e porose come quelle con la Siria e l'Iran. Per carità atlantica tacciamo poi su interrogativi epocali quali: che fine ha fatto Saddam Hussein e dove sono le sue armi di distruzione di massa? Se non le aveva o le aveva già distrutte diventa difficile per l'amministrazione americana giustificare la guerra (Blair dal canto suo per questo motivo è già nei guai da settimane); se invece quelle armi esistono ancora, allora bisogna temere chi ha le chiavi dei depositi, il che significa che la guerra non è affatto finita.
Insomma l'Iraq si è trasformato in un pericoloso pasticcio e più il tempo passa più diventerà difficile per gli americani e i loro alleati (italiani compresi) avere il controllo della situazione e soprattutto imporre una qualsivoglia soluzione politica. Perché il paese in tanta incertezza si è arrangiato come ha imparato a fare da almeno 20 anni: a livello locale scattano le reti tribali e religiose a garantire il "governo delle cose" mentre si tessono trame e alleanze per pesare sempre di più nel dopo-Saddam. Nei due mesi passati dal 1° maggio, data in cui Bush ha trionfalmente proclamato la fine della guerra, gli iracheni hanno preso le misure agli americani e di fronte ad una evidente inadeguatezza della gestione della cosiddetta pace hanno progressivamente alzato il tiro: da una parte la sequela degli attentati si fa sempre più cruenta, dall'altra si fanno sentire con voce sempre più forte quelle autorità locali che sono investite dalla popolazione di un qualche carisma, e prime fra tutte le autorità religiose, mentre il "governatore" voluto da Washington, Paul Brenner, sembra un fantasma, annuncia una prossima Costituzione e un prossimo governo di unità nazionale, ma nessuno pare ascoltarlo. Peggio: ieri i tre religiosi sciiti più importanti dell'Iraq (Ali Al-Sistani, Mohamed Baqer Al-Hakim e Muktada al-Sadr) gli hanno mandato a dire che considerano illegittima la sua Costituzione che ancora non ha visto la luce e considerano illegale il suo governo di transizione. Il bello è che lo fanno non nel nome di Allah ma nel nome di quella democrazia che gli Stati Uniti vorrebbero portare loro. Il pericolo in tutto questo non è una resurrezione di Saddam che è comunque politicamente morto, ma che si creino sul terreno nel vuoto di una veloce e adeguata normalizzazione americana dei nuovi "signori della guerra e della pace" capaci di "ricattare" qualsiasi disegno di ricostruzione con la minaccia della destabilizzazione costante. E più si protrarrà la destabilizzazione meno probabile sarà la ricostruzione visto che gli scalpitanti investitori non saranno invogliati a rischiare capitali in un paese fuori controllo.
Non bisogna dimenticare infine che il Medio Oriente è un sistema di lubrificatissimi vasi comunicanti: perdere la pace in Iraq potrebbe mettere in serio pericolo anche gli sforzi titanici che gli Stati Uniti, ma anche l'Europa, l'Onu e la Russia, stanno facendo in Israele/Palestina.

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