Da Corriere della Sera del 28/05/2003
Il generale Anthony Zinni, ex mediatore in Medio Oriente, analizza i rischi del dopoguerra
«Il Pentagono ha sbagliato i piani, serviva l’Onu»
«Ci vogliono forze come i vostri carabinieri, che io ho ammirato in Somalia e in Bosnia»
di Ennio Caretto
WASHINGTON - Prima ancora della fine della guerra contro l'Iraq, il generale a riposo Anthony Zinni ammonì che il peggio sarebbe venuto dopo. Zinni ha combattuto la guerra del Golfo persico del 1991, diretto i successivi aiuti ai curdi e due anni più tardi quelli ai somali, poi assunto il Comando del Medio Oriente e cercato di mediare - invano - tra israeliani e palestinesi.
La sua profonda conoscenza del mondo arabo lo rende scettico sulla possibilità di pacificare e unificare in fretta e bene l'Iraq. «Avviene quello che temevo - dichiara a proposito degli attacchi ai soldati americani -. Se non cambieremo strada, ci troveremo in un campo minato, in una trappola. Dobbiamo ricorrere alla comunità internazionale».
Si aspettava questi attacchi?
«Purtroppo sì. C'è sempre qualcuno che vuole vendicarsi della sconfitta, che tenta di organizzare una resistenza a posteriori con cecchini, attentati, aggressioni. A Bagdad siamo in una fase di transizione resa più pericolosa dal ritardo nella formazione di un governo e polizia iracheni, sia pure provvisori, e dalla assenza di una autorità non occupante, ma internazionalmente riconosciuta, di cui gli arabi pensino di potersi fidare, cioè l'Onu».
Chi spara? Fedelissimi di Saddam Hussein?
«Per ora pare di sì. Ma il problema non sono soltanto i baathisti, i membri del suo partito, e la loro maggioranza sunnita. Sono anche gli sciiti con il loro integralismo religioso, i curdi con il loro indipendentismo, le tribù locali con i loro antichi dissapori, e così via. Le nostre truppe corrono un doppio rischio: di essere prese a bersaglio, perché la ostilità contro di noi minaccia di crescere, e di venire coinvolte nelle lotte intestine irachene».
Sono individui isolati o gruppi coordinati?
«Non saprei. Non credo che si tratti di un movimento unitario. E spero che non ci siano di mezzo Paesi come l'Iran o la Siria, che hanno interesse a incastrarci in Iraq. Tuttavia è una situazione che può protrarsi ancora per dei mesi, una situazione a cui contribuiscono la disoccupazione, i disagi e la diffidenza di parte della popolazione».
Ma il Pentagono non lo aveva previsto?
«Mi risulta che il Pentagono abbia cominciato a pensare al dopo Saddam in ritardo, a gennaio o febbraio. E non si è reso conto che i militari da soli non possono rimettere ordine in Iraq. Ci vogliono strutture civili ed economiche, organismi politici e giuridici. Con gli inglesi abbiamo 160 mila soldati circa sul terreno, ma non sono sufficienti. Inoltre, per quanto tempo possiamo lasciarli là?».
Si parla di una presenza limitata della Nato, a esempio nella zona che verrà affidata alla Polonia.
«Non è tanto la Nato che serve quanto l'Onu. E' l'Onu che legittima operazioni quali la guerra dell'Iraq e che ha l'esperienza necessaria per la ricostruzione di un Paese, come ha dimostrato nel Kosovo e in Afghanistan. Sotto la sua egida, polizie militari come i carabinieri, che ammirai in Somalia e in Bosnia, possono ripristinare la sicurezza. E funzionari e tecnici possono operare con più credibilità e conquistare la fiducia della popolazione, in particolare su questioni delicate come il petrolio».
L'ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza prevede però un ruolo modesto dell'Onu in Iraq.
«Mi auguro che lo sia solo inizialmente. Il presidente Bush ha fatto un grosso investimento nella liberazione e democratizzazione dell'Iraq. Secondo me ne trarrà frutto se formerà un governo provvisorio iracheno affidabile e se si aprirà maggiormente alla comunità internazionale. Capisco che voglia che siano l'America e la Gran Bretagna a garantire la transizione, ma deve ridurre i tempi il più possibile, altrimenti il caos si aggraverà».
Pensa che le dimissioni del generale Franks avranno delle ripercussioni?
«No. Franks si è dimostrato un grande soldato e il suo successore sarà degno di lui. Ma il comandante militare può fare poco se non ci sono un piano e una organizzazione in grado di attuarli. E' importante che l'ambasciatore Bremer, emissario del presidente Bush a Bagdad, metta a punto l'uno e l'altra e collabori con i leader locali. In questo il rappresentante dell'Onu potrebbe aiutarlo molto».
La sua profonda conoscenza del mondo arabo lo rende scettico sulla possibilità di pacificare e unificare in fretta e bene l'Iraq. «Avviene quello che temevo - dichiara a proposito degli attacchi ai soldati americani -. Se non cambieremo strada, ci troveremo in un campo minato, in una trappola. Dobbiamo ricorrere alla comunità internazionale».
Si aspettava questi attacchi?
«Purtroppo sì. C'è sempre qualcuno che vuole vendicarsi della sconfitta, che tenta di organizzare una resistenza a posteriori con cecchini, attentati, aggressioni. A Bagdad siamo in una fase di transizione resa più pericolosa dal ritardo nella formazione di un governo e polizia iracheni, sia pure provvisori, e dalla assenza di una autorità non occupante, ma internazionalmente riconosciuta, di cui gli arabi pensino di potersi fidare, cioè l'Onu».
Chi spara? Fedelissimi di Saddam Hussein?
«Per ora pare di sì. Ma il problema non sono soltanto i baathisti, i membri del suo partito, e la loro maggioranza sunnita. Sono anche gli sciiti con il loro integralismo religioso, i curdi con il loro indipendentismo, le tribù locali con i loro antichi dissapori, e così via. Le nostre truppe corrono un doppio rischio: di essere prese a bersaglio, perché la ostilità contro di noi minaccia di crescere, e di venire coinvolte nelle lotte intestine irachene».
Sono individui isolati o gruppi coordinati?
«Non saprei. Non credo che si tratti di un movimento unitario. E spero che non ci siano di mezzo Paesi come l'Iran o la Siria, che hanno interesse a incastrarci in Iraq. Tuttavia è una situazione che può protrarsi ancora per dei mesi, una situazione a cui contribuiscono la disoccupazione, i disagi e la diffidenza di parte della popolazione».
Ma il Pentagono non lo aveva previsto?
«Mi risulta che il Pentagono abbia cominciato a pensare al dopo Saddam in ritardo, a gennaio o febbraio. E non si è reso conto che i militari da soli non possono rimettere ordine in Iraq. Ci vogliono strutture civili ed economiche, organismi politici e giuridici. Con gli inglesi abbiamo 160 mila soldati circa sul terreno, ma non sono sufficienti. Inoltre, per quanto tempo possiamo lasciarli là?».
Si parla di una presenza limitata della Nato, a esempio nella zona che verrà affidata alla Polonia.
«Non è tanto la Nato che serve quanto l'Onu. E' l'Onu che legittima operazioni quali la guerra dell'Iraq e che ha l'esperienza necessaria per la ricostruzione di un Paese, come ha dimostrato nel Kosovo e in Afghanistan. Sotto la sua egida, polizie militari come i carabinieri, che ammirai in Somalia e in Bosnia, possono ripristinare la sicurezza. E funzionari e tecnici possono operare con più credibilità e conquistare la fiducia della popolazione, in particolare su questioni delicate come il petrolio».
L'ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza prevede però un ruolo modesto dell'Onu in Iraq.
«Mi auguro che lo sia solo inizialmente. Il presidente Bush ha fatto un grosso investimento nella liberazione e democratizzazione dell'Iraq. Secondo me ne trarrà frutto se formerà un governo provvisorio iracheno affidabile e se si aprirà maggiormente alla comunità internazionale. Capisco che voglia che siano l'America e la Gran Bretagna a garantire la transizione, ma deve ridurre i tempi il più possibile, altrimenti il caos si aggraverà».
Pensa che le dimissioni del generale Franks avranno delle ripercussioni?
«No. Franks si è dimostrato un grande soldato e il suo successore sarà degno di lui. Ma il comandante militare può fare poco se non ci sono un piano e una organizzazione in grado di attuarli. E' importante che l'ambasciatore Bremer, emissario del presidente Bush a Bagdad, metta a punto l'uno e l'altra e collabori con i leader locali. In questo il rappresentante dell'Onu potrebbe aiutarlo molto».
Sullo stesso argomento
Articoli in archivio
di Thomas E. Ricks su Panorama del 26/09/2006
di Tony Paterson su The Indipendent del 19/01/2005
Un testimone e un'ex spia raccontano: agenti dei servizi imponevano all'imputato Graner le violenze contro i detenuti
'L'intelligence ordinava le torture' svolta nel processo-Abu Ghraib
'L'intelligence ordinava le torture' svolta nel processo-Abu Ghraib
di Carlo Bonini su La Repubblica del 14/01/2005