Da La Repubblica del 20/05/2003

I nuovi soldati di Bin Laden

di Gilles Kepel

QUELLA che stiamo vedendo nascere in questi giorni — dopo Riad, Casablanca e anche Israele — è una nuova fase del terrorismo islamico. Una fase che prima di tutto sembra smentire l’efficacia delle ultime mosse americane, con la road mappe per Israele, gli avvertimenti a Siria e Iran.
La prima fase della Jihad globale risale agli Anni ‘90, dopo la “guerra santa” in Afghanistan e ha visto gli estremisti islamici che combatterono contro i sovietici tentare di prendere il potere con la guerriglia in Egitto, Algeria, Bosnia, Cecenia e Kashmir. Il piano fallì, dopo ondate di attentati o lunghi periodi di feroci guerre civili. Le strutture di potere in questi paesi non sono cadute perché gli estremisti non sono riusciti a ottenere il sostegno popolare.
La seconda fase è quella dell’esportazione del terrorismo fuori dai luoghi d’origine delle rivendicazioni islamiche. Iniziata nel’98 con gli attentati alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam, proseguito con l’attacco alla nave da guerra “Uss Cole” nel 2000 nel golfo di Aden e culminato con gli aerei guidati da kamikaze dell'11 settembre 2001 in America terroristi che hanno portato a termine queste azioni non provenivano dai paesi attaccati, vi erano entrati come stranieri e non avevano legami con essi. La loro motivazione principale era quella di dare l’esempio alle masse islamiche, approfittando della cassa di risonanza prodotta dalla televisione, con una strategia che ha delle similitudini con quella utilizzata dalle Brigate Rosse in Italia.
Ma neanche questa volta hanno avuto successo. Le masse musulmane non si sono sollevate per sovvertire l’ordine dei governi musulmani; anzi, la strategia ha portato alla risposta americana in Afghanistan prima (dove è stato messo fuori gioco il regime dei Taliban che sosteneva la rete di Bin Laden), e in Iraq poi, dove gli Stati Uniti sono entrati in controllo delle riserve petrolifere di Saddam.
Eccoci ora alla terza fase: i kamikaze che sono entrati in azione nelle ultime settimane provengono proprio dal paese colpito. Si è trattato di operazioni ben orchestrate e violentemente efficaci, grazie al mix di preparazione terroristica (ottenuta in precedenza nei campi d’addestramento in Pakistan e Afghanistan) e alla rete di complicità sul terreno (composta da amici, cugini e fratelli su cui potevano contare gli uomini-bomba).
Gli attacchi sono avvenuti in momenti simbolici: a Riad i kamikaze sono entrati in azione alla vigilia dell’arrivo di Colin Powell, così il mondo ha potuto vedere il segretario di Stato americano aggirarsi tra le macerie degli edifici colpiti. L’effetto mediatico è stato amplificato dalla decisione Americana — di poco precedente all’attentato — di ritirare le basi dall’Arabia Saudita. Una richiesta che gli integralisti islamici sauditi ripetevano dal ‘98 con la formula «via dal nostro sacro suolo gli ebrei e i cristiani». Effetto ancor più ingigantito dal fatto che molti stranieri stanno adesso lasciando l’Arabia Saudita.
Per quel che riguarda il Marocco, l’attacco multiplo a Casablanca giunge in una delicata fase di transizione, mentre il giovane monarca tenta un’apertura democratica, allarga le libertà d’espressione, sperimenta un timido tentativo di multipartitismo. Ha però di fronte strutture sociali e politiche che non sono ancora state modernizzate; vi è un paese che si basa ancora su fondamenti contadini, ma la cui popolazione è sempre più inurbata in misere bidonville che circondano le grandi città. È su questo sfondo che si combattono le due anime islamiche: quella moderata e quella radicale. La lotta è incerta ma i segnali della forza della fazione estremista c’erano già: l’estate scorsa sono stati arrestati diversi cittadini marocchini e sauditi che stavano preparando un attacco navale nello stile di quello di Aden nel 2000,
obiettivo il porto di Gibilterra.
Il gruppo dietro agli attacchi di Casablanca, il “Sirat al Mustaqim”, traducibile in la “Retta via”, riprende il nome dal versetto del Corano che sostiene come si debba scegliere la strada di Allah rispetto a quella, tortuosa, degli ebrei e dei cristiani. Il nome del gruppo riporta alle lezioni impartite nelle moschee dei quartieri poveri delle città marocchine dove uomini addestrati in Pakistan e in Afghanistan si nutrono della frustrazione prodotta dalle condizioni sociali e dall’astio provocato dal recente rinvio delle elezioni municipali da giugno a settembre. Il governo di Rabat si è reso conto che i movimenti islamici avrebbero mietuto successi anche nelle maggiori città: Fez, Casablanca e Tangeri. Memori della lezione di dieci anni fa nella vicina Algeria, le autorità marocchine hanno preferito prendere tempo.
È per questa somma di fattori che l’attentato di venerdì notte è stato così violento e spettacolare. Già nel ‘94 vi erano stati degli attacchi contro gli stranieri, ma solo ora il livello d’indottrinamento dei kamikaze che hanno imparato a maneggiare l’esplosivo durante gli addestramenti appaltati dalla Cia agli agenti pachistani negli Anni ‘80—ha raggiunto il parossismo, imbevendosi delle parole degli imam che sostengono la necessità di opporsi agli stranieri dal punto di vista spirituale e morale. Nella mente dei terroristi queste parole si trasformano in azioni di sangue.
È come se si fosse accesa una gara di velocità tra gli oltranzisti islamici e i governi per portare il popolo dalla loro parte: i governi attraverso le riforme, i terroristi attraverso la morte degli infedeli.
In questa fase la possibilità che vengano “coltivati”, “creati” kamikaze anche in Europa comincia a essere reale. Anche lontano dai paesi arabi vi è l’humus culturale — nonché la libertà di movimento e le possibilità fornite dalla tecnologia — per indottrinare nuovi adepti della Jihad. In fin dei conti gli uomini che compirono attentati nel ‘94 erano franco-marocchini e franco-algerini, venuti in Marocco dal di là del Mediterraneo. Mohammed Atta, il capo dei gruppi suicidi dell’11 settembre, e altri suoi compagni erano stati a lungo in Germania, dopo essere questi ultimi immigrati dal Marocco. Ricordiamoci le bombe esplose nel metrò di Parigi nel ‘95 e nel ‘96, gli autori degli attentati abitavano e colpivano in Francia. Perciò si può dire che adesso nessuno è, al riparo; ed è per questo che i ministri degli Interni dei paesi più esposti hanno innalzato il livello d’allarme. Anche se dal punto di vista della logica politica i terroristi non dovrebbero colpire popolazioni che si sono dimostrate contrarie alla guerra in Iraq, non si può esser certi che i kamikaze tengano in conto la logica. Del resto anche le popolazioni dei paesi colpiti in queste settimane erano fortemente contrarie all’attacco americano a Bagdad.
Quelli che stanno agendo adesso sono la seconda generazione della rete di Al Qaeda, i nuovi adepti dell’organizzazione di Bin Laden che, seppur duramente colpita, non è finita. Questi nuovi gruppi agiscono autonomamente e scelgono soft target, obiettivi “leggeri” — come a Bali o in Kenya — meno importanti di quelli dell’11 settembre, ma anche meno protetti.
Sullo sfondo c’è il processo di pace tra gli israeliani e palestinesi. Gli Usa hanno cercato di tagliare i supporti esterni ai palestinesi, dall’Iraq alla Siria, ma hanno commesso l’errore di farlo soltanto con strumenti militari e non politici. E questo, come dimostrano le cronache delle ultime settimane, rischia di essere controproducente, di accendere gli animi anziché placarli, fino a rendere impraticabile ogni soluzione diplomatica.

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