Da La Repubblica del 21/05/2003

Il boomerang del terrorismo

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - LA GUERRA dichiarata l’11 settembre 2001 arriva al suo 5O6esimo giorno e ritorna a toccare il cuore del suo principale obbiettivo, l’America, non ancora con le bombe, ma con l’arma devastante della paura. Gli attacchi e gli allarmi s’inseguono, globali e sequenziali, in una serie di grandi cerchi concentrici che si stanno stringendo attorno agli Usa. Sembra di sentire i passi che si avvicinano, via via più prossimi, perché questa è la strategia di chi ha costretto le grandi nazioni occidentali a richiamare il personale diplomatico dall’Arabià Saudita.
E' la strategia di chi è riuscito a far sentire gli Stati Uniti di nuovo vulnerabili, a Washington e al Golden Gate di San Francisco, all’aeroporto Kennedy e attorno alle centrali nucleari, costringendo il Presidente ad alzare il semaforo dell’allarme, dopo che 1’Fbi e la Nsa lo avevano informato che qualcosa «da far davvero rabbrividire» potrebbe abbattersi presto su una città americana. La guerra, che l’invasione dell’Iraq aveva cercato di spingere lontano, torna a grattare all’uscio delle case americane.
Qualcosa di molto prossimo al panico e allo scoramento per la ricaduta dopo le illusioni di guarigione, («Al Qaeda è oramai decimata» aveva annunciato Bush la scorsa settimana in un discorso) comincia a intravedersi, alimentato dalla facilità con la quale anche questi terroristi — come tutti i terroristi — possono colpire i bersagli «soft», indifesi, perché nessuna polizia al mondo può blindare tutti i ristoranti del mondo. E non ci sono rappresaglie, come dimostra tragicamente la strategia di Sharon, che possano prevenire davvero i piani del suicida-omicida. Serve ben poco, per calmarsi, anche alzare il semaforo dell’allarme nazionale al secondo massimo livello, sgomitarsi in televisione come da ieri stanno facendo i responsabili dell’agenzia per la sicurezza nazionale, il segretario Rumsfeld che continua a ripetere che «le cose vanno meglio a Bagdad») o il governatore dello Stato di New York, George Pataki, perché anche negli Stati Uniti funziona il paradosso della rassicurazione ufficiale: più il ministro ti dice che non c’è di che preoccuparsi, più ti preoccupi. Il fatto rimane che milioni di cittadini americani avevano sperato che Bush fosse riuscito a tagliare la testa del serpente. E oggi scoprono che gli era stata soltanto schiacciata la coda.
C’è dunque una contraddizione fra il problema pratico e il problema politico che il Presidente della «missione compiuta») annunciata prematuramente dal ponte di una portaerei trasformata in studio televisivo, deve ora risolvere, conciliando il dovere dell‘allarme nazionale che riporta le Humvee della Guardia nazionale sui ponti, i caccia lungo le rotte aeree, le pattuglie della Guardia Costiera nei porti, mentre cerca di vantare la vittoria in Iraq.
E’ molto difficile calmare e allarmare insieme, anche per i moderni maestri dello «spin», della propaganda e deve essere stato molto amaro anche per Bush, ansioso di lasciarsi alle spalle Bagdad al più presto come i suoi elettori, leggere il rapporto portato dal Consiglio per Sicurezza Nazionale, dalla Rice e da Cheney, nel suo Studio Ovale alle 14 e 15 di ieri e premere il bottone dell’allarme. Proprio in questa primavera avanzata che stava per regalare all’America il weekend più atteso dell’anno, quello del Memorial Day, che segnala la chiusura delle scuole, la riapertura delle piscine pubbliche e dei parchi di divertimento, la prima corsa alle spiagge, arriva la gelata di una guerra che continua. Soltanto gli specialisti non sono stati sorpresi da questa offensiva di maggio, perché, almeno quelli non abbagliati dagli scenari dei falchi, sapevano bene che le stragi di questi giorni sarebbero arrivate e sarebbero state il prevedibilissimo effetto «boomerang» dell’umiliazione inflitta a un regime arabo da una potenza cristiana. Sapevano che il serpente avrebbe morso, con o senza l’invasione e quella malferma, dilettantistica occupazione dell’Iraq che rischia ora di distruggere gli effetti benefici dell’abbattimento di Saddam. Le aggressioni del terrorismo islamico pre-datano le guerre di Bush, e tormentano da almeno un decennio il moderatismo arabo come l’Europa e gli Stati Uniti. L’errore che oggi l’America paga, e fa pagare alla gente che deve scuotersi dal sogno della liberazione dalla minaccia, non è necessariamente stata la guerra. L’errore è stato premere con troppa foga propagandistica, e con una buona dose di malafede, il tasto dell’equazione «Saddam=Al Qaeda». Come la montatura pubblicitaria sulle armi di distruzione di massa ché si sta tristemente sgonfiando, anche questo era stato commesso, per «vendere» meglio la guerra all’opinione pubblica mondiale e dunque aveva creato l’impressione inevitabile che eliminare un dittatore avrebbe attenuato o limitato l’efficacia e la diffusione del terrorismo. L’eccesso di aspettative creato dai «myth makers» della Casa Bianca e del Pentagono, dai fabbricanti di miti come quell’asse Osama-Saddam mai provato, ha prodotto la delusione della scoperta ovvia che lraq e al Qaeda erano grandi mali paralleli ma non convergenti. E la medicina che avrebbe estirpato l’uno, non avrebbe curato l’altro, così come il riconoscimento del diritto dei paIestinesi alla propria sovranità è un obiettivo giusto in se stesso ma non taumaturgico.
Ora, l’amministrazione americana deve riesumare i moniti di prudenza ripetuti dall’inizio della guerra nel 2001 e lasciati in un cantuccio. Deve ripetere che non ci saranno vittorie finali, firme di trattati di resa e soprattutto tempi brevi in questo duello globale e anche le operazioni come quelle in Afghanistan e in Iraq saranno soltanto battaglie vinte, ma non risolutive. Di fronte all’«effetto boomerang», si alza oggi la tentazione del pessimismo, ingannevole come l’ottimismo di Bush e del direttore dell’Fbi, Muller, quando ci avevano raccontato che «avevamo girato l’angolo nella battaglia contro il terrorismo» e Al Qaeda era «on the run», in rotta. I bollettini dal fronte che ci arrivano in questi giorni, e questa volta il luogo comune è corretto, ci dicono soltanto quello che gli americani avrebbero dovuto sapere, che la guerra continua, che al fronte siamo tutti e per questo, ora che Bush ha avuto la sua vittoria in Iraq, il conflitto contro un nemico globale deve ritrovare una risposta globale e unita delle nazioni minacciate.
Ogni giorno, nei 506 giorni dall’inizio della guerra, è sempre un giorno zero. Si ricomincia da capo.

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