Da Il Manifesto del 06/05/2003

La massaia di Baghdad

La guerra contro l'Iraq è già costata agli Stati uniti molto più di quanto il petrolio iracheno potrà dare nei prossimi anni. Chi pagherà la differenza? Come è tradizione negli imperi, saranno i vassalli, specie quelli solvibili. In attesa di un'altra guerra, questa volta per vincere le elezioni

di Marco D'Eramo

Ci sarebbe da chiedersi come mai nessuno fa i conti in tasca al governo Usa sulla guerra in Iraq e sulla mitica «ricostruzione». Ne verrebbe un quadro assai diverso, e assai più preoccupante, per il nostro futuro, di quello che vi viene propinato dai cantori dell'impero americano, e persino da quello dipinto dall'economicismo volgare di una certa vulgata pacifista (tipo: «Vogliono la guerra solo per il petrolio»). Ecco perciò i conti della spesa che - seguendo per una volta il suggerimento di Lenin - farebbe una massaia, in questo caso di Baghdad.

A causa del degrado provocato da 11 anni di sanzioni e da 240.000 missioni nel suo spazio aereo prima della guerra, nel 2002 l'Iraq ha estratto dai suoi giacimenti una media di 2 milioni di barili di greggio al giorno (un barile vale circa 156 litri di petrolio), contro un massimo storico di 3,5 milioni di barili al giorno subito prima dell'invasione del Kuwait nel 1990. Gli specialisti sostengono però che il livello di produzione sostenibile per l'Iraq è di 2,8 milioni di barili al giorno (Mb/g), cioè - all'incirca - un miliardo di barili all'anno (vedi il rapporto sull'Iraq dell'Agenzia internazionale per l'energia, sul sito www.eia.doe.gov/emeu/cabs/iraq.html).

A 25 dollari al barile, il petrolio genererebbe perciò a pieno regime entrate per 25 miliardi di dollari l'anno. C'è chi dice che la produzione può aumentare molto di più (fino ad addirittura 6 o 10 Mb/g), ma da un lato questo esaurirebbe presto le riserve irachene (al ritmo di 10 Mb/g, durerebbero meno di 30 anni); dall'altro produrrebbe un calo del corso del greggio sui mercati mondiali per un eccesso di offerta.

Tenendoci a introiti di 25 miliardi di dollari l'anno, dobbiamo però sottrarre le spese di produzione (minime nel caso dell'ottimo greggio iracheno: 1,5 dollari a barile), di trasporto e i profitti delle compagnie che lo estraggono, diciamo 5 miliardi di dollari. Rimarrebbero 20 miliardi di dollari l'anno.

A fronte di questi 20 miliardi di dollari, vi sono le spese che ha causato la guerra, che provocherà l'occupazione del dopoguerra, i costi della ricostruzione e il bilancio corrente che dovrà sostenere il nuovo Iraq (o chi per esso). Per cominciare, la guerra dovrebbe essere costata agli americani tra i 40 e i 50 miliardi di dollari (l'amministrazione Bush ha chiesto, e ottenuto dal Congresso, 76 miliardi di dollari, oltre ai 393 miliardi del bilancio annuo del Pentagono, ma la brevità del conflitto ha probabilmente ridotto i costi dell'invasione vera e propria a un po' più della metà di questa somma). Agli inglesi dovrebbe essere costata circa 4 miliardi di sterline, cioè 6-7 miliardi di dollari. Le spese di occupazione sono state calcolate in base al precedente del Kosovo, dove ogni soldato è costato almeno 250.000 dollari l'anno (vedi «Iraq: The Economic Consequences of War» di William Nordhaus sulla New York Review of Books del dicembre 2002). Una presenza di occupazione di 40.000 soldati fa 10 miliardi di dollari l'anno, che diventano 25 miliardi per 100.000 soldati. Prudenzialmente, sono quindi tra i 50 e i 60 miliardi di dollari nel quinquennio.

Vanno aggiunti i dollari da investire per ripristinare e modernizzare l'apparato estrattivo iracheno. Un rapporto del Council on Foreign Relations (Cfr) e il James Baker Institute della Rice University stimano a 40 miliardi di dollari l'investimento per riassestare il settore petrolifero iracheno (vedi The Economist del 23 gennaio 2004).

Per ricostruire invece le infrastrutture civili del paese, il fabbisogno è stimato a 10 miliardi di dollari l'anno: e sono altri 50 miliardi di dollari nel quinquennio («Fuzzy Math on Iraq», editoriale del New York Times 27 aprile 2003).

A queste cifre va aggiunto il debito pregresso dell'Iraq, di 116 miliardi di dollari, oltre a 200 miliardi di dollari per risarcimenti della guerra del Golfo del 1991. Secondo l'Economist del 3 aprile, il debito iracheno sarà negoziato tra il 10 e il 30% del suo valore nominale, mentre la Commissione risarcimenti delle Nazioni unite (Uncc) ridurrà le compensazioni a circa 40 miliardi di dollari. Il totale oscilla tra i 50 e i 70 miliardi effettivi, il che implica - per il servizio complessivo del debito - tra i 20 e i 25 miliardi di dollari nel quinquennio.

A queste cifre, bisognerebbe aggiungere il denaro necessario a far vivere i 23 milioni di iracheni (che saranno 34 milioni nel 2014). Nell'ultimo anno, il reddito pro-capite iracheno era di 700 dollari all'anno, contro i 3.000 nel 1980. Tenendo conto che il 56% del prodotto lordo iracheno dipende dal petrolio, questo significa che il petrolio dovrà generare 400 dollari l'anno pro capite, e cioè 10 miliardi di dollari l'anno, ovvero 50 miliardi di dollari nel quinquennio.

Ricapitoliamo: in 5 anni le entrate petrolifere nette dell'Iraq assommeranno a circa 100 miliardi di dollari. A fronte, si hanno le seguenti spese (calcolate usando ogni volta la voce minima della forchetta):

Guerra: 40 miliardi di dollari;

Occupazione: 50 miliardi di dollari;

Restauro settore petrolifero: 40 miliardi di dollari;

Ricostruzione civile: 40 miliardi di dollari

Servizio del debito e dei risarcimenti: 20 miliardi di dollari:

Bilancio dell'Iraq addebitabile al petrolio, 50 miliardi di dollari.

Totale: 240 miliardi di dollari.

Cioè due volte e mezzo le entrate.

Ma guardiamo la guerra precedente: in Afghanistan, gli Usa hanno speso 13 miliardi di dollari per la guerra e solo 10 milioni in aiuti civili (cioè 1.300 volte meno) e per l'assistenza a Kabul nel bilancio 2002 hanno stanziato solo 400 milioni di dollari (vedi il sito dell'Istituto di studi strategici www.iss.org sul costo del dopoguerra in Iraq). Si può allora supporre che a Baghdad la fantomatica ricostruzione non ci sarà. In questo caso il fabbisogno scenderebbe solo a 200 miliardi. E, se si affamassero un po' gli iracheni, scenderebbe a 180 miliardi di dollari, sempre molto di più di quel che il petrolio apporterà.

Da qui discendono interessanti conclusioni. La prima riguarda la «Guerra per il petrolio». Se con questo termine si intende che gli Stati uniti vogliono lucrare sul greggio iracheno, allora - alla luce dei conti della massaia di Baghdad - la guerra in Iraq è, come direbbero i romani, un «affare di Maria Calzetta» («che comprava a due e rivendeva a uno»), anche perché una parte di quel petrolio appartiene a compagnie straniere che non se lo vorranno far soffiare gratis.

Ma proprio perché i conti non tornano, la «guerra per il petrolio» va intesa come volontà di appropriarsi del greggio in quanto risorsa strategica. Con il petrolio iracheno, gli Stati uniti assumono direttamente il controllo dell'Opec, poiché sono in grado di vanificarne ogni decisione aumentando a volontà il flusso di petrolio. In questo senso, il greggio iracheno consente a Washington di togliere alla dinastia di El Saud il ruolo di ago della bilancia petrolifera mondiale e costituisce il corrispettivo economico di quello che è stato militarmente lo smantellamento delle basi dall'Arabia saudita, iniziato pochi giorni fa. Controllare l'Opec significa tenere al guinzaglio tutte le altre potenze industriali quanto ad approvvigionamenti energetici. E' stata quindi una «guerra per il petrolio» sì, ma non in senso economicista volgare.

Altra osservazione: se sul quinquennio gli esborsi dell'operazione Iraq si aggirano intorno ai 200 miliardi di dollari, mentre le entrate sono solo la metà, c'è da chiedersi chi coprirà l'ammanco. Se gli Stati uniti dovessero sottostare, come tutti gli altri stati al mondo, ai vincoli di bilancio imposti dal Fondo monetario internazionale (controllato dal Ministero del tesoro Usa), allora, l'onere di pagare per l'Iraq ricadrebbe sui contribuenti americani.

Ma a questa soluzione si oppongono due argomenti. Il primo è che l'anno prossimo ci sono le elezioni presidenziali, e certo George Bush il giovane non vuole presentarsi al voto come il tartassatore dei contribuenti. Il secondo è che gli Stati uniti non sono un paese come un altro, ma si sono arrogati una sorta di status imperiale. Anzi, si potrebbe dire che si sono arrogati il diritto di esercitare l'impero non più con la tecnica clintoniana del soft power, ma con l'hard power delle bombe e dei tank.

Si può dire che quindi gli Stati uniti sono regrediti da una concezione moderna e inedita, per così dire «consensuale», dell'impero (quasi «accettato» dai sudditi), a una visione assai più tradizionale, dell'impero imposto con la forza. E lo strumento classico con cui i prìncipi armavano i loro eserciti era la tassazione dei vassalli.

L'unico modo che hanno perciò gli Usa di finanziare guerra, dopoguerra e ricostruzione in Iraq è di operare un prelievo (volontario o involontario) dal resto del mondo, e cioè, dagli altri paesi ricchi (i soli che economicamente possano dare qualcosa) a cui sarà chiesto di finanziare un deficit di bilancio americano in crescita esponenziale. La risposta al «Chi paga?» è perciò insieme semplice e sconsolante: «Tutti noi».

Potrebbe sembrare che si ripeta qui il tradizionale ricorso reaganiano al militar-keynesismo, o il ricorso alla guerra come stimolo economico. Ma in questo caso, proprio per la sua brevità e per la sproporzione tra i contendenti, la guerra irachena non ha creato quelle distruzioni massicce che farebbero ripartire l'apparato industriale Usa: non ha richiesto di sostituire migliaia di carri, decine di migliaia di aerei, milioni di fucili, come avvenne per esempio nella Seconda guerra mondiale. La guerra non consentirà quindi nessuna ripresa economica. Per vincere le elezioni, all'amministrazione Bush non resterà perciò l'anno prossimo che lanciare - come suggeriva ieri Marcello de Cecco su Repubblica - una nuova guerra, magari contro Siria, o Iran o Corea, abbastanza a ridosso del primo giovedì del novembre 2004, per poter far dimenticare agli elettori un'economia catatonica. Tanto, anche questa nuova guerra sarà finanziata, con le buone o con le cattive, dal resto del mondo. Resta da vedere se questo drenaggio, senza contropartita di capitali, non finirà con il produrre effetti recessivi su scala mondiale. In fondo Bush non fa altro che applicare alla politica elettorale Usa la vecchia tecnica di «esternalizzare» i costi. Solo che uno dei problemi della globalizzazione è che l'esterno finisce sempre col ripercuotersi come un boomerang sull'interno. Allora George Bush riconoscerà la saggezza del vecchio Charles de Talleyrand quando diceva che con le baionette si può fare tutto, tranne che sederci sopra.

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