Da Il Manifesto del 10/04/2003

Una nuova stella

di Luigi Pintor

La guerra all'Iraq non è durata fino all'ultimo bambino e può dirsi militarmente conclusa. Forse non ci sarà una resa formale, forse restano focolai di resistenza o forse si riaccenderanno. Hanno combattuto al di là di ogni previsione, gli iracheni, ma non hanno fatto saltare né pozzi né ponti e non hanno trasformato Baghdad in una trincea. Non hanno usato armi proibite (quelle invocate per legittimare l'invasione) e non si sono immolati quattromila kamikaze. La più grande potenza militare della storia ha avuto ragione non di un dittatore e di un regime ma di un popolo mille volte più debole. Lo ha fatto seminando il terreno di molti morti, militari e civili, senza riguardo umano. Ha sbagliato molti calcoli ma soprattutto ha infarcito la guerra, nata da una grande menzogna, di altre piccole menzogne e colpevoli silenzi.

Chiamatela vittoria ma non le somiglia, la vittoria ha un altro volto. E' presto per parlare del dopoguerra, tra rovine fumanti ed effetti immediati ancora imprevedibili, ma già si annuncia gravido di mali che sono il contrario di una pacificazione democratica in Iraq, nell'area mediorientale, all'interno dell'Occidente e oltre. I nostri commentatori non sembrano rendersene conto e giocano sulle parole negli studi televisivi o nel Transatlantico di Montecitorio.

Gli Stati uniti di Bush concepiscono l'Iraq come un territorio annesso, una nuova stella o striscia sulla loro bandiera. Ne affidano il governo di fatto, quali che siano le formule di transizione e i rivestimenti che escogiteranno, a un mercante di cannoni e alle compagnie petrolifere già insediate. Lasceranno all'Onu discreditata un ruolo ornamentale, anche se usano altri aggettivi per rabbonire il maggiordomo inglese. Ci sarà una pausa militare, ma l'Iran e la Siria sono già nel mirino e per il resto, sul piano diplomatico, le potenze occidentali avverse alla guerra stenteranno ad aver voce in capitolo sugli equilibri politici e sugli affari in tutta l'area. Israele resterà il più saldo retroterra di questa impresa e le probabilità che si riapra un processo di pace in Palestina sono infinitamente minori che quelle di un consolidamento del regime di occupazione israeliano che dura da quarant'anni.

L'avversione dell'opinione mondiale a questo stato di cose e i movimenti che ne derivano continueranno ad avere gran peso, anche se una guerra è finita, perché la strategia che l'ha prodotta è di lunga durata. Ma questa avversione non sarà risolutiva finché non contagerà il cuore dell'impero, finché l'opinione americana non sarà capace di una rigenerazione democratica oggi affidata a una sua parte generosa e consapevole e però minoritaria. Ma questo problema, che cosa sia oggi l'America sotto gli attuali gruppi dirigenti e in generale, merita ben altra riflessione che non i pochi cenni sull'universo che si possono fare in un articolo di giornale. A me appare come una Atlantide emersa invece che sommersa, non è Occidente né Oriente, vede solo se stessa al centro del mondo con la cultura della conquista del West e della Bibbia e una breve storia compressa in due secoli. Come occidentale mi sembra più lontana della Cina.

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