Da Corriere della Sera del 09/04/2003

La città stremata dal dolore aspetta la fine

Come i palazzi di Saddam anche l’Hotel Palestine in prima linea. Il regime sacrifica uomini per niente

di Massimo Nava

Tutt’intorno tremavano le vetrate e dall’atrio arrivavano persone insanguinate, urla disperate, pianti isterici di colleghi. Lui continuava a suonare e a sorridere e a far finta di nulla, mentre noi adulti ci scambiavamo sguardi di angoscia. Qualche volta crediamo anche noi che la guerra sia un gioco per sopportare il disagio, quando l’albergo senza corrente elettrica diventa un campeggio di scout con i capelli grigi alle prese con fornelli a gas, generatori e scatolette di tonno. Qualche volta cadiamo nel tranello del ruolo e dell’abbigliamento, con elmetto e giubbino pluritasche, ed è il momento delle imprudenze inutili e dell’ingenuità. Ieri, ascoltare Omar e credere per un attimo che la guerra sia come nei film, con i «nostri» che arrivano e i «buoni» che si salvano, è stata la reazione naturale al dolore per i colleghi uccisi, al panico, all’idea ieri negata che l’hotel dei giornalisti fosse una specie di santuario a Bagdad, l’unico posto dove non fosse possibile morire. Anzi, soltanto una tribuna privilegiata della guerra, con le finestre sui carri armati, postazioni per le fotografie, satelliti per raccontare la battaglia in diretta, terrazze per vedere missili ed esplosioni. Le stanze ai piani alti sono le migliori per osservare la città e il campo di battaglia. Quelle ai piani bassi le più sicure e comode, in caso di blackout elettrico. Quelle a est bene esposte per i satelliti. Quelle sul Tigri, che scorre lento e pacifico fra i canneti, fanno sembrare gradevoli anche i palazzi di Saddam sullo sfondo.
La stanza 1503, toccata alla Reuters , era perfetta per documentare i fatti di ieri: i carri armati che avanzano sul ponte della Repubblica e che conquistano altri quartieri di Badgad, accelerando la fine del regime. La stanza della Reuters , e in genere delle agenzie di stampa, è sempre una delle più frequentate, perché alle agenzie si chiedono una conferma, o un dettaglio, il permesso di una telefonata in fretta e di dare uno sguardo dai piani alti.
In tutto il mondo i colleghi delle agenzie, anche se sconosciuti, sono in genere gentili, disponibili. Ieri ci hanno regalato l’ultimo servizio: ci hanno fatto specchiare nel rischio corso decine di volte, per tutte le ore della giornata, affacciandosi a ogni scoppio, per fotografare, capire, raccontare.
Davanti al loro sangue, fra schegge di vetri e pareti sbrecciate, l’«arrivano i nostri» dei film americani, è diventato una speranza. Ci hanno appena sparato addosso, ci hanno ammazzato tre colleghi nello stesso giorno, eppure abbiamo fatto il tifo per loro. Per tutti loro, marines, soldati blu, sceriffi, Settimo cavalleria, elicotteri Apache. I «nostri», insomma. Che si sbrigassero a prendere il ponte sul Tigri e a venire da questa parte. Che dimostrassero in fretta quanto sono più forti. Che «conquistassero» anche l’Hotel Palestine, come il palazzo di Saddam e l’aeroporto. Che si decidessero a far calare il sipario su questa caccia assurda, in cui si spara a una zanzara con i lanciafiamme, bruciando e distruggendo ciò che resta attorno, le case e la vita, i mercati e i soldati, i luoghi dove sono nati e le loro famiglie.
Anche noi, ieri, siamo diventati «danni collaterali» o, come si dice più spesso nel Golfo, «vittime di fuoco amico». Definizioni gentili del nuovo codice di guerra. Basta intendersi. Un bombardamento si chiama operazione liberatoria o umanitaria e un cameraman con la pancia squarciata dalle schegge è un danno collaterale.
Il bilancio comincia a essere eccessivo per un esercito non combattente: 12 morti, 9 feriti, 2 dispersi, 17 «prigionieri» (i colleghi fermati a Bassora o entrati in Iraq senza visto), tutti alloggiati due piani sotto la stanza 1503, quella della Reuters. Anche noi ieri ci siamo sentiti un po’ iracheni, nella condizione che, probabilmente, si immagina il presidente Bush: così desiderosi di venire liberati, e di tornare a casa, da accettare l’inevitabile errore di mira di un carro armato che scambia lo zoom di una telecamera per un cecchino.
Ieri, le bombe hanno «liberato» anche la casa di uno dei nostri autisti, un palestinese scampato a tutte le guerre e repressioni subite dal suo popolo e finito in Iraq a guadagnarsi come autista il salario della paura, sulla strada Bagdad-Amman. Ieri si è trasferito, con moglie figli e nipoti, nell’altro albergo dei giornalisti, lo Sheraton che confina con il Palestine. La comunità si allarga. Ci sono interpreti, scudi umani giapponesi, tassisti, volontari umanitari e volontari kamikaze. I nostri autisti sono diventati persone di famiglia. Le loro mogli fanno il bucato e preparano un piatto caldo per i «prigionieri».
E poi ci sono i profughi, gente che ha lasciato quartieri nel mirino dei bombardamenti pensando di stare più al sicuro assieme ai giornalisti. Alcuni hanno perso tutto. Nessuna bomba ha mai suscitato gesti o sguardi di ostilità. Ieri questa gente che soffre si è commossa per noi. Ci ha stretto la mano.
Può sembrare vigliaccheria o insopprimibile istinto di sopravvivenza sperare che «i nostri» arrivino in fretta. In realtà, sarebbe l’unica cosa sensata in questa guerra che si è trasformata in una caccia a un latitante con tonnellate di bombe. L’Hotel Palestine è anche l’ultimo pezzo di regime ancora in piedi, o almeno il più visibile, essendo il vertice nei bunker bombardati. Ed è una parvenza di cuore pulsante della capitale irachena, poiché nella morte civile quel poco che succede, oltre alle esplosioni, succede là dentro. Se «cade» anche il Palestine, come i palazzi di Saddam, forse si assisterà al crollo mediatico e simbolico di un regime che sembra resistere per forza d’inerzia e che manda i suoi soldati a morire per niente. Basterebbe che quel carro filmato dalla Reuters facesse un passo in più.

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