Da Corriere della Sera del 07/04/2003

Bagdad «città chiusa» nella morsa americana

Le truppe Usa controllano le vie d’accesso. Il regime decreta il coprifuoco. La gente fugge verso il centro

di Massimo Nava

BAGDAD - Attorno alla sterminata distesa di povere case colore della sabbia non ci sono muraglie e portali dell’antichità, ma tangenziali e cavalcavia, le barriere di piloni e asfalto che cingono tutte le brutte periferie del mondo. Eppure, ieri mattina, Bagdad si è svegliata come nei suoi secoli più bui, quando veniva circondata, invasa e dominata per lasciare ai nuovi conquistatori le sue ricchezze. Ieri codici, scrittura, medicina, spezie, favole e leggende. Oggi il petrolio. Al diciottesimo giorno di guerra, l’assedio è davvero cominciato e adesso diventa interessante soltanto capire se sarà breve o durerà come a Sarajevo o Stalingrado, se inghiottirà assediati e assedianti nell’apocalisse delle armi chimiche e delle bombe all’uranio o se almeno uno dei due nemici sarà in grado di rinsavire. Saddam, mettendosi da parte o andando all’inferno. Bush provando a chiedersi se la vita di 5 milioni di persone sia il prezzo accettabile della sua vittoria.
Conquistato l’aeroporto e ammassate truppe fresche attorno alla città, i comandi americani adotteranno probabilmente la tattica del carciofo, la meno costosa dal loro punto di vista, essendo quella che eviterà la guerriglia urbana. Prendere Bagdad pezzo per pezzo, in attesa che il regime affondi o che si aprano crepe interne. Quando più le «porte» restano chiuse, come in un teatro in fiamme, il panico e l’istinto di sopravvivenza potrebbero insinuarsi nell’apparato e debilitare il patriottismo che gli iracheni hanno ritrovato sotto l’effetto dei bombardamenti.
Saddam Hussein rinnova gli appelli a «colpire il nemico ovunque si trovi». Nel sottosuolo dove si nasconde, probabilmente non vede i suoi pomposi palazzi che bruciano e crollano, come in un kolossal di carta pesta, prodotto da culto della personalità e cattivo gusto. Il raìs scatena la controffensiva militare e ritarda la fine, facendo ripetere ai suoi uomini che l’invasore verrà cacciato. I suoi soldati esultano attorno a un tank americano incenerito, come per esorcizzare il cimitero dei loro blindati e cannoni che ancora fumano sulle vie d’accesso a Bagdad.
L’immagine per il lettore non è un granché, ma quella del topo in gabbia mi sembra la più efficace per la gente di Bagdad e, tra parentesi, per noi giornalisti. È una grande gabbia, da cui, per uscire, si dovrebbero superare, come al circo, diversi anelli di fuoco. Nel primo ci sono alcune migliaia di soldati americani, con carri armati e artiglieria. Nel secondo, le trincee di Saddam, i reparti della guardia repubblicana e dell’esercito che si fanno massacrare da terra e dal cielo per frenare l’avanzata. Ogni centimetro di questa follia vale un centinaio di vite e ogni vita vale per il numero che si può rinfacciare alla controparte. Ieri mille morti, oggi duemila. Più aumentano gli iracheni morti e più salgono le Borse, perché la guerra si accorcia e il petrolio è più a portata di mano. A contare davvero l’infinita sofferenza e anime che se ne vanno, sono rimasti gli infermieri di Bagdad, negli ospedali ormai saturi di soldati moribondi e civili colpiti per caso. Dentro i due anelli, c’è la popolazione, in massima parte composta da vecchi, donne e bambini, dato che uomini e ragazzi, in divisa o in jeans, sono quasi tutti finiti nel secondo anello, nelle trincee, di fede e di sabbia, che dovrebbero fermare con la baionetta carri armati ed elicotteri.
Fra le trincee e la città, ci sono ancora una decina di chilometri di semilibertà e di spazio vitale che si assottigliano con il passare delle ore. Nella doppia condizione di vittima degli americani e ostaggio del regime, chi è rimasto a Bagdad deve fare i conti con quello che continua a piovere dal cielo, senza troppi riguardi per case o caserme, e con quello che è avanzato nella dispensa. La città è senza luce, in molti quartieri non arriva l’acqua, impossibile trovare frutta e verdura e continuo a chiedermi, senza trovare spiegazione, da che parte arrivino vassoi di uova in vendita agli angoli delle vie, assieme a taniche di benzina. L’afa aumenta il rischio di malattie, almeno a giudicare dagli scarafaggi che cominciano ad attraversare la hall del nostro albergo. Si spara a tutte le ore. Il tonfo sordo delle bombe arriva da lontano, il loro potenziale distruttivo fa tremare le pareti, ma si spera sempre che il colpo sia calcolato dal computer. L’artiglieria è meno rassicurante, perché ormai si sente nelle vie centrali, accompagnata dal concerto di mitragliatrici e bazooka e dalla pioggia di schegge che cade dove capita.
L’assedio è determinato dall’involontaria complicità del regime con le forze americane che hanno circondato la città e controllano tutte le strade di accesso. Per la prima volta è stato decretato il coprifuoco, dalle 18 alle 6 del mattino. Misura che non vieta di circolare di notte per la città (ammesso che qualcuno trovi il coraggio di farlo), ma impedisce di entrarvi e soprattutto di uscirvi. Condizione che sembra implicita anche nelle ore diurne, per effetto di furiosi scambi di artiglieria lungo le direttrici d’accesso. Ne sanno qualche cosa i diplomatici russi, colpiti nonostante la bandiera sull’auto e i probabili avvertimenti di rito. Forse hanno scelto il momento sbagliato, ma l’impressione è che non ci siano più momenti giusti. Dopo le ultime partenze, verso la campagna e i villaggi del Nord, è cominciato l’esodo interno, la fuga verso il centro di Bagdad, nell’illusione che i suoi vicoli siano più sicuri.
I convogli umanitari vengono tenuti in stand-by , al confine giordano, perché in questo modo il regime tende a dimostrare che gli assediati non hanno bisogno di nulla. Il grande padre padrone Saddam, in vista della guerra, ha pensato anche alle razioni di farina e ha ordinato ai fornai di rimanere aperti. Almeno per i primi giorni, non sarà la capacità di resistenza fisica che mancherà agli iracheni. Dagli anni Ottanta sanno sopravvivere in guerra, non avendo mai saputo cosa significhi vivere in pace.

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