Da Corriere della Sera del 04/04/2003

Nella capitale sprofondata nel buio. Ancora vittime tra la popolazione. Il regime mobilita anche le donne

Miliziani in trincea per l’ultima difesa

I volontari sono appostati dietro i sacchetti di sabbia nelle strade: vorranno davvero morire per il raìs?

di Massimo Nava

BAGDAD - Il rumore della guerra è cambiato. Adesso, anche a Bagdad, precipitata nel buio, senza più corrente elettrica, assediata da cielo e da terra, è ormai quello della battaglia vera, cominciata ieri sera a una manciata di chilometri dal centro. Dopo missili telecomandati e incursioni dei cacciabombardieri, è entrata in scena l’artiglieria pesante. Colpi di mortaio e bazooka. Ecco la colonna sonora permanente che accompagna ormai l’avanzata degli angloamericani. Si combatte al Saddam International Airport che secondo la rete televisiva americana ABC è stato conquistato nella notte dagli alleati. Per la prima volta dall’inizio della guerra, i reparti speciali statunitensi avrebbero violato una delle residenze del raìs iracheno, il palazzo chiamato «Il paradiso», già bombardato nella prima guerra del Golfo. È il preludio di quanto potrà accadere durante il fine settimana. La storia ci racconta che quando un regime perde aeroporto e televisione significa che il potere è passato nelle mani di altri, golpisti, rivoluzionari o liberatori che siano.
Nel caso dell’Iraq, occorre anche capire che cosa del potere sia rimasto sotto terra, nei bunker. Gli ultimi appelli del raìs e le sue ultime apparizioni sarebbero registrati e si rincorrono voci di una sua fuga. Gli esperti ricordano che durante la prima guerra del Golfo, Saddam Hussein si spostava in taxi e utilizzava case private.
Le autorità irachene definiscono le imprese dei marines «solite bugie di mercenari comandati da idioti» e, per dimostrare che i reparti della Guardia repubblicana tengono ancora a debita distanza la «cavalleria» Usa (così si chiama la divisione corazzata a ricordo del mitico Settimo Cavalleggeri), hanno portato a mezzogiorno qualche troupe televisiva a filmare il «pieno controllo» dell’aeroporto.
«Continuano a prendere lezioni e per questo sono diventati isterici e moltiplicano criminali massacri di civili», tuona il ministro dell’Informazione iracheno, facendo l’elenco quotidiano di quelli che il Pentagono continua a definire «danni collaterali» e il regime «martiri»: ieri 27 morti e 190 feriti, in seguito ai bombardamenti che hanno colpito zone abitate, scuole, fabbriche, mercati.
I toni del linguaggio salgono («Sono nel fango, intrappolati ovunque»), quanto più si stringe la tenaglia attorno a Bagdad. Gli angloamericani avanzano da sud e sud-ovest, lungo l’Eufrate e il Tigri. Questione di ore, al massimo di giorni per vedere ripetersi le imprese di persiani, mongoli, ottomani e più recentemente inglesi, tutti protesi alla conquista di una città che aveva un milione di abitanti quando le nostre erano villaggi. A Bagdad furono scritti i primi codici dell’umanità, la sua caduta segna l’inizio di un nuovo codice internazionale fatto rispettare con la forza delle bombe.
Lo scenario è tracciato, l’esito e le conseguenze per il raìs e per il popolo di Bagdad restano nell’incertezza. Un ingresso in forze, con elicotteri, carri armati e truppe paracadutate potrebbe affondare in fretta il regime, ma deve mettere in preventivo un alto numero di perdite civili. Molto dipenderà dalla capacità di resistenza dei fedelissimi, dalla vocazione al martirio di migliaia di volontari e dai segreti percorsi interni alla popolazione, oggi patriottica e sottomessa, domani magari disponibile a rompere le righe, secondo la logica del si salvi chi può.
A prima vista, la difesa popolare di Bagdad ricorda la battaglia ad Algeri che inghiottì nei gorghi della casbah la vita e il residuo potere coloniale dei soldati francesi. Tutto sembra predisposto per evitare scontri in campo aperto e attirare i marines in trappole micidiali nel tessuto urbano. La struttura capillare del partito unico, il Baath, tiene e coordina quartiere per quartiere altre organizzazioni e servizi: vigili urbani, poliziotti, servizi segreti e clan rivali. Dai turni nelle trincee al pronto soccorso, dalla distribuzione dei viveri al trasporto dei feriti, tutto fa capo ai segretari di sezione, i quali hanno anche la responsabilità di distribuire le armi e del controllo dei volontari: «Molti sono votati al martirio e vanno subito al fronte, ma fra loro - racconta un funzionario - ci potrebbero essere infiltrati. Nella piccola dimensione del quartiere è più facile controllare persone estranee».
In previsione dell’attacco, la struttura del partito ha organizzato da mesi l’addestramento militare. Dai 16 ai 70 anni, non c’è iracheno maschio che non sappia maneggiare un kalashnikov. «Ma anche le donne hanno un ruolo fondamentale: sono preparate al soccorso dei feriti e ad aiutare vecchi e bambini. Il primo dovere di un membro del partito è difendere il Paese», dice con orgoglio il funzionario.
Vedremo nelle prossime ore se le migliaia di volontari appostati da giorni dietro i sacchetti di sabbia avranno voglia di «morire da eroi», come raccomanda Saddam, e di difendere la terra sacra dell’Iraq come chiedono gli imam nelle moschee.
La difesa dall’«aggressore americano» rivela anche l’ossessione per la sicurezza interna, il timore fondato di improvvise rivolte: «In questo Paese i muri hanno le orecchie», dice un amico iracheno e lo dice sottovoce, anche se siamo al buio in mezzo alla strada. Non passa giorno che il raìs in persona non proponga taglie, ricompense e misure di sicurezza. Da ieri sono proibiti i telefoni cellulari per i cittadini iracheni. C’è un premio in denaro per chi fa catturare una spia e per chi ha avuto la casa danneggiata dal bombardamento. Ci sono medaglie per i martiri, ricompense per chi cattura o uccide i nemici.
Ieri sera, la guerra ha cambiato anche il suo colore. È il nero più profondo, come si conviene a una lunga notte di battaglie e di lutti, forse la notte che potrebbe segnare il destino dell’uomo che sognava di essere Nabucodonosor.

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