Da Corriere della Sera del 04/04/2003

Ma non è il Vietnam (nè un videogame)

di Ennio Caretto

WASHINGTON - Il Vietnam è ovunque, negli ultimi best seller in libreria, sulle riviste di politica, alle radio, in tv, sui giornali, nelle università, persino nelle scuole. Ignorato per oltre 25 anni o, meglio, nascosto come una vergogna nazionale, ritorna di prepotenza alla ribalta, un fantasma che si alza sulla guerra dell’Iraq. Ma è un fantasma che insegna all’America come evitare ora gli spaventosi errori del conflitto in Indocina: «L’Iraq non sarà un clone del Vietnam». La sindrome che per un quarto di secolo ha afflitto la Superpotenza Usa, e che forse bloccò Bush padre sulla strada di Bagdad nel 1991, è stata esorcizzata. Cogliendo l'umore del Paese, l'ex segretario di Stato Henry Kissinger rielabora una parte delle sue memorie e pubblica un nuovo libro: «La fine della guerra del Vietnam». Con lui, ritorna sul conflitto vietnamita lo storico Howard Jones con «Morte di una generazione: l'assassinio di Diem e di Kennedy». Tv via cavo e cinema d'essai recuperano documentari e film sulla caduta di Saigon, mentre gli editoriali dei più rispettati quotidiani portano titoli come «La lezione del Vietnam», «Non un Vietnam di sabbia».
L'anno scorso un sondaggio accertò che il 75 per cento dei liceali sapeva poco o nulla del dramma vietnamita. Ma adesso Nick Robertson, un diciottenne dell'Oregon, scrive a Usa today che «se la seconda guerra mondiale generò amore e lealtà per il Paese, il conflitto vietnamita intaccò invece il patriottismo e l'orgoglio di una generazione, la rese sorda alle tradizioni, le insegnò a diffidare del governo», ammonendo che per lui e i suoi coetanei la guerra dell'Iraq «deciderà della nostra credibilità e fiducia nel potere». E termina: «Abbiamo visto gente buttarsi dalle Torri Gemelle di Manhattan. In Iraq incominciamo a capire che cosa sia una guerra. Non è più un videogame».
Il monito del giovane Nick trova terreno fertile. E' per il bene dei loro figli che gli americani stanno facendo tesoro dall'insegnamento del Vietnam. In Iraq, il Pentagono non compie stragi d'innocenti con le «free fire zones», zone a fuoco libero dove chiunque poteva venire ucciso a sangue freddo, con le bombe al napalm (chi ha scordato le sconvolgenti foto dei bambini vietnamiti in fiamme?), con sostanze tossiche come l'agente arancio, ma tenta, per quanto possibile, di non fare vittime civili.
Nonostante qualche tentazione dei politici, non sposa l’idea di allargare il conflitto alla Siria e all'Iran, al contrario di quanto avvenne in Laos e in Cambogia. E poi «embeds: incastona» i giornalisti nelle forze armate in marcia, affinché siano testimoni delle loro imprese, ma senza i laceranti risultati che i mass media provocarono nell’opinione pubblica durante la guerra del Vietnam. Il Pentagono avverte il bisogno di non alienarsi l'opinione pubblica americana e mondiale. E’ la stessa esigenza del presidente Bush, che contrappone alle atrocità di Saddam Hussein il flusso degli aiuti umanitari alleati; che ribadisce quotidianamente che questa è una guerra di liberazione del popolo iracheno e di prevenzione di una apocalisse terrorista; e che smentisce che il ministro della Difesa Donald Rumsfeld sia un altro Robert McNamara, l'architetto del disastro vietnamita. Bush non pronuncia mai la parola «Vietnam», ma la Casa Bianca riferisce che ha studiato a lungo quella guerra e ne ha discusso con i generali e i governanti di quel tempo.
Hanno imparato la lezione del Vietnam anche il Partito della pace e il Partito della guerra, decisi a non spaccare irrimediabilmente il Paese. I pacifisti, che alla fine degli Anni Sessanta e all'inizio degli Anni Settanta insultavano i combattenti e i reduci, distinguono tra i militari al fronte e l'amministrazione: il George McGovern del 2003 (McGovern fu la colomba che perse le elezioni del '72), il candidato democratico alla Casa Bianca Howard Dean, attacca Bush ma appoggia le truppe e auspica una rapida vittoria. E i falchi non accusano più i critici di tradimento, si limitano a ricordare le conseguenze della sconfitta del Vietnam, il genocidio dei cambogiani da parte dei khmer rossi, le tragedie dei boat people , i profughi delle barche.
In qualsiasi conflitto, osserva David Halberstam, un autore di best seller che fu inviato del New York Times nel Vietnam, gli errori e gli eccessi sono inevitabili. Quello dell'Iraq non sarà un'eccezione, e il suo bilancio potrebbe essere aggravato da un'occupazione militare prolungata. Ma sinora la guerra del Vietnam e quella dell’Iraq sembrano avere in comune solo una discutibile matrice, quella della guerra preventiva. Non ci fu allora provocazione diretta (da parte di Hanoi). Non c’è stata neppure questa volta.

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