Da La Repubblica del 03/04/2003
Originale su http://www.repubblica.it/online/esteri/iraqattaccodiciotto/generali/ge...

L'azzardo dell'assalto a Bagdad dopo le polemiche contro il capo del Pentagono

La spallata finale dei generali così cambia la regia di guerra

Per Franks è quasi una condanna: prendere la capitale e consegnare a Bush la testa di Saddam Hussein

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - E' cambiato il vento della guerra. L'euforia soffia verso Bagdad, nelle vele dei soldati e della Borsa, spinge l'attacco che non poteva essere più rinviato, dopo la settimana di marcia insabbiata e "il pugnale è al cuore di Saddam", intona il portavoce del comando centrale. I tempi della fine ormai dipendono solo "da quanto gli ultimi soldati iracheni abbiano voglia di battersi per un regime finito", sorride un Rumsfeld di nuovo sprezzante. La necessità d'uscire dal logorio morale e tattico della "sporca guerra" di retrovia era diventata vitale e i registi dell'invasione volevano tornare in fretta alla "bella guerra" delle avanzate e delle bandierine sulle mappe.

L'attacco in corso vuole, e deve, essere la spallata finale al regime, l'apertura della battaglia di Bagdad, perché da questo "final push" non ci può essere ritorno o un'altra "pausa strategica". Per la terza volta, dopo la prima settimana di esaltazione e la seconda di contraccolpi depressivi, la guerra prende dunque un volto nuovo. Non più le facce di generali e politici in polemica, ma il viso grazioso e tenero del soldato Jessica, la teen ager salvata dai carcerieri iracheni. Non più soldati costretti alla sporca guerra del contro terrorismo, ma il vento delle colonne corazzate in corsa verso i sobborghi, ormai a 30 chilometri dall'ultima fortezza del regime. La regia della guerra ha cambiato film e ha contrattaccato, lanciando l'azzardo di quell'assalto finale dal quale potranno venire soltanto la vittoria in tempi accettabili o un altro, ancora più grave contraccolpo psicologico.

E' stato nella notte di martedì, dopo una giornata infernale per il segretario della Difesa Rumsfeld costretto a respingere le accuse di fallimento che erano arrivate anche nelle aule del Parlamento, che il copione è cambiato. In quelle ore, mentre da Washington aumentavano le pressioni sul comandante al fronte, Tommy Franks, perché ricominciasse subito l'avanzata - naturalmente "di sua iniziativa", si affretta a dire la Casa Bianca - i commandos calavano con perfetta coincidenza di tempi sull'ospedale militare di Nassirya, per riportare a casa la soldatina bionda e annunciare la sua salvezza in una conferenza straordinaria convocata alle quattro del mattino in Qatar.

Nella guerra delle pubbliche relazioni, che accompagna passo per passo, caduto per caduto, ogni guerra moderna, Jessica era la "giornata di sole" che l'America attendeva per restituire un viso innocente alla violenza del combattimento.
I registi avevano calcolato bene. Tra la ripresa dell'avanzata sulle strade Irakene e la commozione per il recupero della ragazza in divisa, scoppiava l'effetto della "coda che agita il cane" dell'opinione pubblica. Qui sul fronte occidentale, i genitori di Jessica, semplice famiglia di montanari nel West Virginia, erano su tutti i teleschermi a commuoversi di sacrosanta gratitudine per un Bush anche lui "felice e commosso".

Sul fronte orientale, i marines e il Settimo Cavalleria cominciavano a correre verso Bagdad spazzando via i rottami della Guardia Repubblicana. Cadeva l'ultimo ponte sul Tigri ad Al Kut, come cadde il ponte di Remagen sul Reno davanti ad Eisenhower in marcia verso il cuore del Terzo Reich, e i generali da talk show potevano tornare a giocare con le bandierine piantate sulle mappe, anziché brontolare contro il "piano di battaglia".

E' il giorno dell'euforia. La "resistenza irachena" sembra dissolta, due divisioni "distrutte" e la Borsa scoppia di ottimismo, le tv mostrano finalmente le prime immagini di bambini sciiti sorridenti che si sgomitano attorno attorno ai carri armati per contendersi le caramelle lanciate dai "liberators", e questa mitizzata Guardia Repubblicana con i suoi nomi pomposi, la "Medina Luminosa", la "Nabuccodonosor", la "Bagdad", la "Hammurabi" non si vedono, forse si arrendono, collaborano, disertano. Si sono dissolti nella polvere? Non ci sono mai stati? Si sono ritirati a Bagdad per la loro Stalingrado? Preparano quelle armi chimiche che l'armata di Bush è venuta ufficialmente a eliminare e che nessuno ancora riesce a trovare? "È sempre più probabile che le usi", dice il generale Stanley McChrystal nel briefing del Pentagono. È una paura, ma anche una speranza di giustificazione a posteriori della guerra "per disarmare Saddam".

In attesa che si sciolga il mistero di Bagdad, di sapere se la capitale è ormai il guscio vuoto o il nocciolo duro del regime in agonia, il successo di questa controffensiva militare e propagandista è stato, nel primo giorno, importante. È riuscita a spostare lo sguardo del pubblico dalla guerra interna fra generali e politici alla guerra sul campo, perché le tv preferiscono sempre sequenze di panzer che sparano a dibattiti in studio tra teste parlanti. E ha ridato la sensazione che "l'iniziativa", la nuova parola d'ordine del giorno, sia saldamente nelle mani dell'esercito americano. La guerra rimane, per chi la vede a 10mila chilometri, lo spettacolo più terribile e affascinante del mondo.

Ma il successo nel "cambiare il segno" della guerra ha in sé il seme di un rischio proporzionato alla grandezza dell'azzardo. Un'altra "pausa" in quella che già è raccontata come la battaglia finale, un'altra stasi del fronte a 30 chilometri da Bagdad porterebbe un contraccolpo psicologico ancora più violento della prima stasi attorno al "cerchio rosso", l'immaginario vallo eretto da Saddam a 90 chilometri da Bagdad e superato senza problemi. Franks non può più fermarsi. L'euforia deve essere mantenuta.

E' condannato ad avanzare, a raggiungere Bagdad, ad andare fino in fondo e consegnare la testa del "mostro sanguinario" ai suoi superiori. Rispetto ai suoi predecessori al comando dei disastri in Vietnam o in Libano o in Somalia, Tommy Franks ha un enorme vantaggio: ha un obbiettivo solido, tangibile e chiaro, un "punto di gravità" come vuole la dottrina militare classica. Bagdad. Quando cadrà, e oggi lui ci ha dato la speranza che la fine sia misericordiosamente vicina (si sente parlare d'un arrivo trionfale a Bagdad già domenica), potrà dire di avere vinto la sua guerra. Poi, ne comincerà un'altra, nella cosiddetta pace dell'occupazione militare, ma gli occhi impazienti del mondo guarderanno già un altro film.

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