Da Corriere della Sera del 02/04/2003

Tra le suore di Madre Teresa la battaglia è una favola paurosa

L’addetto alle sirene d’allarme ha probabilmente deciso che il suo lavoro è inutile. A che serve suonare se i bombardieri non fanno pause? E a che serve avvisare, se la gente rinnova, come in ogni guerra o calamità, la capacità umana di adattarsi a tutto?

di Massimo Nava

BAGDAD - Le suore di Madre Teresa di Calcutta hanno inventato la contraerea più efficace. Ogni notte, quando il cielo rimbomba, si stendono su tappeti orientali, accanto ai letti dei loro bambini.
Prendono fra le braccia quelli che strillano più forte e raccontano che dopo il tuono arriverà la pioggia. Alla Casa della Carità, una delle ultime villette neocoloniali annegate fra orrendi palazzotti di cemento, la guerra è un evento naturale che non uccide, una favola paurosa, ma a lieto fine, perché la pioggia, come l’acqua del Tigri e dell’Eufrate, rende florido il deserto.
I bambini che arrivano qui sono handicappati fisici e mentali. L’ultimo accolto è un fagottino di sette mesi senza braccia. Nessuno può camminare, mangiare e addormentarsi da solo, ma la mente funziona abbastanza per avere paura e fare domande, in inglese, perché questa è la lingua che hanno conosciuto e quella delle suore arrivate dall’India.
«Viviamo dell’aiuto di Dio e degli uomini - spiega suor Nancy -; gli iracheni sono generosi. Ci sono giorni che arriva tanta roba da sfamare anche i poveri del quartiere e quelli che di notte vengono qui a cercare rifugio».
La Casa della Carità venne istituita negli anni ’90, con la benedizione di Madre Teresa e il personale beneplacito di Saddam Hussein. Era un’epoca in cui andava ancora forte l’idea dello Stato multiconfessionale, rispettoso di una storia secolare, crocevia di culture. Epoca oggi lontana. L’eco delle bombe ingigantisce quello degli appelli alla guerra santa e i missili cadono anche sulle università.
Nell’Iraq immiserito dalle guerre e dall’embargo, la vita è durissima anche per i bambini normali. Decine di migliaia sono malnutriti e muoiono prima del quinto anno di vita. Proiettili all’uranio impoverito, caduti sul Paese dal ’91, hanno fatto crescere casi di malformazioni e handicap mentali. I più sfortunati fra i bambini iracheni vengono abbandonati. Suor Nancy dice pietosamente che sono orfani. «Orfani» di musulmani e cristiani.
La Casa della Carità, piccola culla di sofferenze senza rimedio, sembra oggi un’oasi serena nella Bagdad bombardata. La guerra toglie senso alla vita, stravolge valori e percezioni degli esseri umani, i quali vorrebbero credere anche loro al temporale. Oggi chi comanda in Iraq, il vertice supremo, è sotto terra, in rifugi a prova di bomba atomica. E i sudditi stanno sopra, a prendersi le bombe fra ritratti e gigantografie di Saddam Hussein.
Ci sono molti luoghi della metropoli dove sembra che la guerra non ci sia o possa essere esorcizzata, da favole e preghiere. Luoghi fisici e luoghi dell’anima. Le migliaia di uomini armati, appostati agli angoli delle vie, e le trincee di sacchetti di sabbia, con le mitragliatrici puntate sul nulla, sembrano tante repliche del tenente Drogo, l’ufficiale che aspetta nel deserto i tartari che non arrivano.
Da giorni sono pronti a una invasione da terra, in cuor loro immaginano di affrontare marines nei vicoli, qualcuno ha infilato sulla canna la baionetta. Mangiano polvere dall’alba al tramonto, nel campo di battaglia che non c’è. Anneriti dalle trincee di petrolio bruciato, sembrano una popolazione a parte, estranea alla città. La guerra continua ad arrivare dal cielo, sempre più devastante, eppure invisibile. L’addetto alle sirene d’allarme ha probabilmente deciso che il suo lavoro è inutile. A che serve suonare se i bombardieri non fanno pause? E a che serve avvisare, se la gente di Bagdad rinnova, come in ogni guerra o calamità, la capacità dell’essere umano di adattarsi a tutto.
Si aprono i negozi perché morire a casa o al lavoro non fa differenza. Si esce, si va al mercato, al bar, persino a pranzo fuori. L’Alsaan Take Away è un anfratto di comunità internazionale improvvisata. Pizza e pollo fritto per giornalisti stranieri e soldati iracheni, impiegati della Croce Rossa, interpreti, autisti e famiglie con bambini. In comune abbiamo la lingua inglese per parlarci e le bombe sopra la testa. Nella comunità internazionale la guerra non dovrebbe esistere, così al Take Away, nessun boato compromette il senso di ospitalità degli iracheni. Dice uno studente: «Non ci sono civiltà migliori, ma civiltà diverse. La vostra non sta facendo una bella figura».
Anche noi che siamo qui a raccontare questa guerra, non sfuggiamo alla regola dell'adattamento e al far finta di vivere. Dopo aver fatto esercizi con le maschere antigas e corse nei rifugi, al dodicesimo giorno il sonno arriva nel proprio letto, nonostante boati che fanno tremare le pareti dell’albergo. E la maschera finisce in fondo all’armadio. Donne, bambini, molti camerieri corrono nei rifugi, un altro posto dove la guerra sembra una bestia feroce tenuta a distanza. Nell’angoscia di massa, si tende a stare il più possibile insieme, nella stessa stanza, nello stesso angolo. Ci sono letti allineati, tavolini di plastica, pile e generi di conforto, giochi. Ma il rifugio è proprio l’unico luogo dove ciò che non si vede spaventa ancora di più. Ci si sente in gabbia, con un’insopprimibile voglia di uscire all’aria aperta.
Anche il municipio di Bagdad prova a far finta di nulla. La pioggia di bombe lascia immaginare due sole attività, lo sgombero delle macerie e la sepoltura dei cadaveri. Invece, in modo un po’ surreale, l’amministrazione ripara e medica di giorno quel che viene distrutto di notte. Si vedono operai intenti ad aggiustare semafori, riallacciare fili elettrici e cavi telefonici, lavare le strade e raccogliere immondizia. E riaccendere i lampioni sulle rive del Tigri.
La struttura del partito unico, efficace per reprimere in tempo di pace, mostra un lato utile in tempo di guerra. Trincee, barricate, distribuzione di viveri, gestione dei rifugi sono misure e servizi organizzati in modo capillare, via per via, casa per casa. Così l’odiato regime aiuta oggi la massa a sentirsi più al riparo e infonde ad essa coesione.
La guerra è il miglior momento nella vita di Abdul, otto anni. Da quando è scoppiata non va a scuola e lustra le scarpe ai giornalisti per qualche dollaro. Abdul, come molti suoi coetanei, parla inglese, seconda lingua dalle elementari anche nell’Iraq di Saddam Hussein.
Anche i bambini di Madre Teresa esprimono in inglese le loro paure. «Desert storm» vuol dire appunto temporale nel deserto. Ma loro non sono sani di mente.

Sullo stesso argomento

Articoli in archivio

Reticenze americane
Due tonnellate di uranio rovesciate dagli inglesi su Bassora. Una quantità imprecisata dagli Usa
di Toni Mira su La Nuova Ecologia del 13/05/2005
Eredità radioattiva
Non bastava la guerra, in Iraq è anche emergenza ambientale. Ma non solo. Uranio impoverito, tantissimo, molto più che nei Balcani
di Toni Mira su La Nuova Ecologia del 13/05/2005
 
Cos'� ArchivioStampa?
Una finestra sul mondo della cultura, della politica, dell'economia e della scienza. Ogni giorno, una selezione di articoli comparsi sulla stampa italiana e internazionale. [Leggi]
Rassegna personale
Attualmente non hai selezionato directory degli articoli da incrociare.
Sponsor
Contenuti
Notizie dal mondo
Notizie dal mondo
Community
• Forum
Elenco degli utenti

Sono nuovo... registratemi!
Ho dimenticato la password
• Sono già registrato:
User ID

Password
Network
Newsletter

iscriviti cancella
Suggerisci questo sito

Attenzione
I documenti raccolti in questo sito non rappresentano il parere degli autori che si sono limitatati a raccoglierli come strumento di studio e analisi.
Comune di Roma

Questo progetto imprenditoriale ha ottenuto il sostegno del Comune di Roma nell'ambito delle azioni di sviluppo e recupero delle periferie

by Mondo a Colori Media Network s.r.l. 2006-2024
Valid XHTML 1.0, CSS 2.0