Da La Stampa del 01/04/2003

Diario arabo

Ritorna a combattere dalla parte del tiranno per amore di Patria

di Igor Man

MI stupisco che la gente si stupisca del fatto che non pochi iracheni anziché fuggire all’estero per sottrarsi alla ferula spietata di Saddam, facciano il cammino inverso - via Giordania - tornino cioè a casa, in Iraq. Semplicemente per combattere «contro l’invasore». Almeno tredici tra questi revenant sono stati arrestati con l’accusa di «diserzione-disfattismo», accusa che può portare davanti al plotone d’esecuzione. Sfidano, dunque, due volte la morte codesti iracheni chiamati dalla guerra a difendere la terra che li ha visti nascere, le proprie famiglie; non certo la Cupola politico-mafiosa che oramai da anni lunghi, e crudeli, opprime quel disgraziato paese. Cosa li muove a tornare in quell’inferno prossimo venturo che in fatto è l’Iraq? Semplice, tanto semplice da apparire assurdo: l’amor di Patria. I nostri pacifisti (stradali) che trasversalmente, cioè attraversando città e sigle politiche, manifestano un giorno sì e l’altro pure «per la Pace», si sono mai interrogati, ora che la Pace è stata una volta ancora stuprata e bisognerà attendere, forse a lungo, che arrivi contraddicendo infine Jonesco e il suo disperante Signor Godot, non cadano nell’ennesimo equivoco. Il fatto che volontariamente iracheni «residenti all’Estero» raggiungano l’Iraq per combattere una guerra perduta in partenza (errori o non errori, gli Usa alla fine vinceranno), non significa che quella gente sia con Saddam. No. Assolutamente no. Sta, quella gente, con «la cara terra natia», difende «il sacro suolo della Patria». Vedo che persino italiani bravi non riescano a capacitarsi di ciò e allora viva una volta ancora Ciampi, il presidente che cerca di spiegare cos'è il Tricolore, che tenta, ostinato come un castoro, di ficcare nelle nostre zucche che esistono «valori puri», fuor d’ogni guasto della retorica: la Patria, la Bandiera.

Al tempo della guerra di Saddam contro l’Iran, nel 1980, primi giorni di settembre, l’allora direttore della Stampa, il generoso ma implacabile Giorgio Fattori, mi «pregò» di raggiungere comunque l’Iran. Le linee aeree erano saltate, che mi arrangiassi. Arrangiandomi, faticando come una bestia riuscii a varcare la frontiera tra la Turchia e l’Iran. Era notte fonda, non c’era un buco dove posarsi, mi rifugiai nella moschea. Nel buio qualcuno protestò: «Via, non c’è posto» ma una mano invisibile mi trattenne: «Prenda questa coperta, vuol dire che ci stringeremo un po’», disse una voce sommessa, in buon inglese. Era quella di un iraniano, «gnomo» a Zurigo, che pur avversando Khomeini correva «a difendere la Patria: «right or wrong, my country», ridacchiò. Grazie, dissi sottovoce e la voce-gnomo rispose: «Non deve ringraziarmi, chiunque lei sia. Il suo Dio è il mio, sicché siamo fratelli». Al mio risveglio, sull’alba, lo gnomo-voce se n’era andato. Aveva però lasciato, sulla coperta ben ripiegata, un biglietto: «Buon viaggio, che Dio clemente e misericordioso ci doni la Pace».

Quell’esperienza (inobliabile) mi aiuta a capire i «patrioti iracheni», musulmani credenti e no, usciti (o fuggiti) dall’Iraq per sottrarsi alla dittatura infame di Saddam, che oggi, tornando, rischiano la vita per «amor di Patria». La Grande Guerra romantica (’15-’18) vide giovani intellettuali «di sinistra» arruolarsi falsificando persino la data di nascita: per tutti citeremo il figlio di Margherita Sarfatti, ebreo. (Bisognerà tornare sul contributo degli ebrei italiani alla guerra irredentista). Right or wrong, my country. Recita il Corano: «Dio ha promesso a tutti il bene migliore, ma Dio accorderà ai combattenti, a preferenza di quelli rimasti al sicuro, un premio insigne: la Pace». (IV, 97).

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