Da La Stampa del 31/03/2003

La rabbia delle folle fa tremare i governi

di Mimmo Candito

Alla frontiera giordana - da una parte la strada di Amman, dall'altra il vuoto del deserto verso Baghdad - la faccia del doganiere guarda l'obiettivo della telecamera, come uno che non capisca bene. Gli avevano detto che stava per arrivare l'inferno, che dall'Iraq sarebbe piovuto un fiume ininterrotto di gente in fuga, che insomma bisognava essere di manica larga per aiutare quei disgraziati che scappavano dalla guerra. Ma qualcosa non dev'essere andata secondo le previsioni, perché ora - mentre da Baghdad non passa quasi nessuno - è nella direzione opposta che c'è da lavorare sodo, quella verso l'Iraq. Proprio quella verso l'Iraq. Sembra una follia, la gente va a tuffarsi nel vulcano della guerra invece di scapparne. Eppure, i documenti sono in regola, i «visti» dell'Ambasciata hanno timbri e numeri inchiostrati di fresco, le foto corrispondono alle facce che fanno la coda dietro la piccola parete di vetro. E tra quei matti c'è anche chi fa la «V» con le due dita in aria. Qualcuno l'aveva detto, nei giorni scorsi, che le guerre si sa come cominciano ma poi bravo chi ne indovina la fine. Un doganiere, naturalmente, non è tenuto a farsi domande; lui scrive e timbra, e basta. Ma alla fine certe cose, anche un doganiere le sa osservare. E mette assieme questo fiume di gente che parte per la guerra, le notizie che dà la tv, e i cortei che ogni tanto riempiono di folla e di proteste le strade di Amman: e arriva alla conclusione che gli americani, insomma, non possono fare come se fossero loro i padroni del mondo, e che poi è vero che quei poveri iracheni che colpa ne hanno se c'è Saddam, e pure Bush li bombarda con la scusa di volerli liberare. Quando s'erano disegnati gli scenari possibili di questa guerra, grande enfasi era stata posta su quello che veniva chiamato «il nuovo Medio Oriente»: l'attacco contro il Raíss di Baghdad sarebbe stato soltanto la prima tappa d'una risistemazione del mondo arabo, perché il governo di transizione dell'Iraq postSaddam avrebbe costituito un modello di riferimento per riformare progressivamente tutti i regimi (oggi, assai poco democratici) della Mezzaluna: il Maghreb, il Mashrek, lo stesso Golfo. Il progetto appariva di forte tensione politica, perfino rivoluzionario, in questa illuministica pianificazione di un allargamento della democrazia. Però c'era chi vi vedeva - all'opposto - la presuntuosa proiezione d'un progetto di modello occidentale su una realtà già diffidente verso l'America e del tutto diversa per cultura, tradizione, forme di gestione del potere. E faceva rilevare come l'immagine della «invasione» e della «occupazione» avrebbe rischiato di prevalere nettamente su quella della «liberazione». Quanto meno, per tutto il tempo della durata della guerra. Il rischio più drammatico era che l'antiamericanismo che sta alle radici del proselitismo fondamentalista avrebbe trovato nuovo alimento nei bombardamenti e nelle inevitabili distruzioni del conflitto: ogni bimbo morto, ogni foto di donna che urla la propria disperazione, avrebbero dato nuova forza a chi vede nelle armate yankee solo l'imperialismo dell'Occidente, che parla di libertà e invece bada solo a imporre con le armi la propria legge economica. Il flusso di auto e camionette che alla frontiera giordana prendono la strada per Baghdad è soltanto una delle facce che mostrano come stia reagendo alla guerra americana il mondo arabo (e musulmano). Tra quelli che passano a farsi timbrare il passaporto dei doganieri di re Abdullah ci sono iracheni che rientrano in patria per una rabbiosa reazione di spirito nazionalista, ma c'è anche chi - non iracheno, non giordano - va a Baghdad per una sua «guerra santa» (il jihad che i mullah predicano spesso nelle moschee) contro l'Occidente. Che sia «guerra santa» o che per ora sia soltanto la furiosa ribellione contro quella che viene avvertita come una insopportabile ingiustizia, non v'è ormai Paese musulmano dove non stia montando sempre più massicciamente un contagioso sentimento di protesta contro l'America di Bush. Il contagio si va allargando ormai senza limiti di frontiera, ieri in Indonesia (con i suoi 200 milioni di musulmani, il più popoloso dei Paesi dell'Islam) i cortei hanno avuto una dimensione che soltanto le più drammatiche lotte politiche del passato avevano raggiunto, e cortei e proteste hanno occupato la cronaca anche in India, dove più di 100 milioni d'indiani sono di religione musulmana. Si può dire che finora sono due le forme di reazione, e di opposizione, che si sono manifestate nel mondo musulmano: quella individuale, dell'uomo-bomba o di chi entra in Iraq per combattere il suo jihad, e quella collettiva, popolare, dei cortei antiyankee, in Giordania, in Libano, in Siria, in Marocco, in Egitto, in Iran. E se quella del kamikaze può anche apparire un'espressione di fanatismo incontrollabile, che ha rilevanti effetti pratici ma un ridotto retroterra politico, appare invece più drammatica l'espansione del sentimento di protesta a livello popolare. I cortei che riempiono piazze e strade marciano in Paesi dove il controllo politico è rigido, e dove ogni manifestazione si è potuta realizzare soltanto quando il governo, il regime, lo hanno consentito. In quei Paesi, le forme di dissuasione per chi pretende di opporsi al potere hanno poco a che vedere con le regole della tolleranza democratica. E dunque, quello che si è visto finora è stato più o meno consentito dai vari governi arabi, che hanno preferito aprire una valvola di sfogo. Ma quanto è avvenuto ieri ad Alessandria - dove più di diecimila studenti delle due Università hanno manifestato per la chiusura del Canale di Suez alle navi militari angloamericane - e quanto sta avvenendo in questi giorni nella strade di Damasco, di Beirut, di Amman, dove si bruciano bandiere americane e però viene anche lanciato qualche slogan aspramente critico contro il governo, avvia una fase nuova, che potrebbe attivare un drammatico processo di destabilizzazione. I popoli delle società araba stanno vivendo la guerra americana - ogni giorno sempre più - come un attacco contro il «popolo fratello» iracheno. E questo mette in un imbarazzo di difficile gestione i loro governi, che invece hanno tenuto sempre un basso profilo sulla crisi, chiedendo formalmente «la fine della guerra» ma, in realtà, mostrandosi assolutamente incapaci d'una reale opposizione (il flop della Lega Araba ne è stato il manifesto pubblico). Questo imbarazzo si va facendo ora un gravoso problema politico per quei Paesi che finora hanno tenuto comunque una posizione moderata, la Giordania e l'Egitto soprattutto; se il segretario alla Difesa americano Rumsfeld continua con la sua rozza gestione delle relazioni internazionali a trovare nemici nuovi ogni giorno - le accuse dell'altro ieri contro la Siria e l'Iran rischiano di aprire altri due fronti di guerra - il risultato potrebbe essere la messa in crisi definitiva dei moderati. Mubarak e re Abdullah - più di tutti - sono schiacciati oggi tra le pressioni antiyankee dei loro popoli e la polarizzazione (o con noi, o contro di noi) che invece chiede Rumsfeld. La tenaglia potrebbe anche stritolare i due capi di Stato, e i loro colleghi moderati, costringendoli a uno schieramento che non potrebbe essere che la voce delle loro folle in marcia. La radicalizzazione toglie spazio alla politica, favorisce soltanto Saddam. Forse non è proprio quello che Bush voleva quando ha lanciato questa dannata guerra, che non gli va benissimo sul piano militare e rischia di preparargli anche un terremoto politico. LA CAMPAGNA IRAQI FREEDOM RISCHIA DI INCENDIARE IL MONDO ISLAMICO.

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