Da Corriere della Sera del 28/03/2003

I capi beduini a consulto «Fermeremo l’invasore»

Le tribù pronte a combattere «per la gloria di Allah» Ogni aereo abbattuto vale un premio di 50 mila dollari

di Massimo Nava

BAGDAD - Lo sceicco di Ninive, tunica blu bordata d’oro, viaggia in Mercedes, è laureato in legge, ma non ha mai fatto l’avvocato: ha preferito il più redditizio commercio di petrolio. Un capo clan di Bassora, arrivato in comitiva, con un polveroso pulmino, giura che i beduini controllano la strada verso Bagdad e respingono gli invasori. Un boss di Mosul spiega come i suoi uomini si preparino a tagliare la gola ai paracadutisti americani, se oseranno attaccare la città. Un altro, giunto da Nassiriya, esalta le eroiche imprese della tribù: una parente ha fatto saltare con un bazooka un carrarmato e un contadino ha abbattuto un elicottero Apache con una vecchia carabina da caccia.
Sotto il palmizio di un hotel di Bagdad, la guerra diventa racconto epico d’altri tempi, cariche di cammelli contro carrarmati, imboscate come al cinema, leggenda. Se non ci fossero le bombe vere e i civili dilaniati, l’albergo potrebbe sembrare il set di Lawrence d’Arabia o un documentario sulle antiche tradizioni del Paese. Alcune centinaia di beduini, nomadi del deserto o stabilizzati nelle province, si sono dati appuntamento per due giorni nel centro della capitale.
L’atrio, come sotto un’enorme tenda di cemento, è un andirivieni di kefiah a quadretti biancorossi e bianconeri, o semplicemente bianche, di jalabah , le lunghe tuniche della tradizione che differiscono per colore, taglio, importanza di chi le indossa.
Per età e portamento hanno quasi tutti l’aspetto dei vecchi saggi, ascoltati e influenti. Ogni ruga del volto è un comando o un consiglio per migliaia di membri della tribù, fratelli, cugini, parenti racchiusi nel cerchio di generazioni.
Siccome la guerra c’è, e si fa sentire in continuazione, il raduno delle tribù è un evento organizzato come una riunione segreta, con solida barriera di sicurezza, secondo rango delle personalità convenute, le quali attendono il momento in cui un uomo del regime verrà a trovarle. Per vegliare sulla convention tribale, ci sono poliziotti, spie, guardie del corpo con mitra ben in vista, ma i capi tribù sanno difendersi da soli.
Quando chiedo con quali armi pensino di affrontare «l’invasore», una selva di coltelli e pistole spunta di colpo da tuniche e giacche: «Con queste! E con la volontà di Allah», urlano mentre inizia la danza propiziatoria alla gloria di Saddam Hussein.
All’ordine del giorno c’è un elemento, forse sottovalutato dal Pentagono, che spiega le difficoltà dell’armata di Bush nel deserto: la lealtà delle tribù al sistema e l’impegno, ben retribuito, a partecipare alla resistenza. Il raìs ha fissato i premi di guerra per tutti gli «eroi iracheni», fino a 50 mila dollari per ogni aereo abbattuto e 10 mila per un nemico catturato. Ai capi tribù va un premio ancora più ambito: l’onore e una fetta di potere locale.
«Non aspettate i miei ordini, combattete l’invasore ovunque si trovi», ha scritto il raìs, che ieri ha presieduto una riunione con i suoi più stretti collaboratori militari e i membri del governo. La risposta dei capi clan è arrivata subito. Nella società irachena, le tribù hanno resistito a trasformazioni della modernità e a orrori della dittatura. Famiglie allargate e solidali sono diventate la formidabile rete di consenso e gestione territoriale.
Il partito unico, il Baath, controlla l’esercito e l’apparato, ma sono i membri dei clan più importanti a occupare posti chiave del regime. I capi nelle grandi città come nelle più sperdute oasi sono tasselli della piramide, dallo Stato ottengono privilegi e servizi e ricambiano con la disponibilità dei loro uomini. L’immagine di Saddam satrapo assoluto è ingannevole rispetto alla struttura reale del suo potere.
Il vertice di guerra non altera l’aria compassata dei capi tribù, attorno a tazze di tè e fumate di narghilè, la pipa tradizionale. I governatori-ombra di Saddam spiegano volentieri i loro intenti allo straniero, nonostante la cintura di sicurezza impenetrabile. Essere italiano è ancora una garanzia di pace. L’ospitalità araba ha qualche cosa di sacro in ogni circostanza. Basta un «salam alejkum» per ottenere una stretta di mano.
«Con spirito e sangue ci sacrifichiamo per Saddam». Lo slogan ritmato da cento bocche, m’investe come un’onda magnetica. Pressato come su un autobus all’ora di punta, ripeto che gli italiani sono pacifici e contro la guerra. L’avvocato di Ninive, antica reggia degli assiri, ringhia disprezzo per gli americani che «mandano le loro donne in battaglia». «È un fatto disonorevole, offensivo. Anche noi chiediamo alle donne di combattere, ma per difendere la nostra terra». «Noi - dice - non abbiamo voluto questa guerra, siamo un Paese aggredito e dobbiamo difenderci. Non ci lasceremo colonizzare da chi è nato molti secoli dopo di noi. Ho cinque figli maschi e sono tutti al fronte». Un altro assicura che «in ogni villaggio sono già state scavate le fosse per l’invasore».
Chiedo ad alcuni l’appartenenza tribale e religiosa. Ci sono sunniti e sciiti. «In questo momento siamo 22 milioni di iracheni combattenti. Non facciamo distinzioni nemmeno con i cristiani. Gesù anche per noi musulmani significa pace».
Un vecchio capoclan di Babilonia dice: «Bush e Blair dovrebbero dormire nello stesso letto, uno sopra l’altro». L’insulto rende l’idea del clima. Il capo di una tribù di Mosul è più sottile: «In un villaggio c’era un uomo cattivo e venne ucciso, suo figlio era ancora più cattivo e venne ucciso anche lui».
Solidarietà di clan e struttura militare attenuano la semplificazione di un Paese diviso «in partes tres», fra sciiti, sunniti e curdi e la tesi di un regime allo sbando. All’ottavo giorno di guerra, sono già 350 i funerali di civili nelle tribù dell’Iraq. Ogni vittima è un’iniezione di dignitoso patriottismo per un popolo in bilico fra due disastri, un dittatore e un invasore.

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